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1971-2021. Cinquantesimo DOB-AIDO. Una storia meravigliosa: l’evoluzione dei trapianti nei 50 anni di DOB-AIDO. Auditorium Lucio Parenzan, ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo. Sabato 11 dicembre 2021.
Max Pavan, moderatore: Un appuntamento che è più di una cerimonia, che va oltre la celebrazione, un evento importante, in particolare per Bergamo. Profondamente radicato nell’oggi, nel “qui e ora”, nei tempi così difficili che stiamo vivendo. Un appuntamento che riguarda la cultura e la formazione. Rivolgo un augurio a tutti coloro i quali hanno operato e operano in questo settore, a chi ha reso possibile e continua a rendere possibile questa “storia meravigliosa” (che dà il titolo al convegno) e a tutti i volontari che quotidianamente prestano il loro tempo. Un saluto e un ringraziamento anche alla sede che ci ospita – l’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo – tanto più in tempi così difficili, e a chi ci sta seguendo in diretta Facebook.
50 anni. Sfida ai limiti del possibile. Confronto tecnico-medico-scientifico.
Maria Beatrice Stasi, Direttore Generale ASST Papa Giovanni XXIII Bergamo: In realtà siete tutti voi, volontari di Aido, che meritate un applauso. Il merito del nostro ospedale è quello di aver mantenuto una promessa, fatta al Presidente Valli, di essere la sede di questo prestigioso convegno. Siamo in piena campagna vaccinale con un ritmo di 2.200 vaccini al giorno. La nostra organizzazione inizia ad essere un po’ stanca. Ormai da 22 mesi siamo in emergenza. La prima ondata aveva colpito duramente il nostro territorio, ci siamo rialzati e abbiamo proseguito con una seconda ondata, riuscendo ad essere d’aiuto agli altri centri. Grazie alla scienza e ai vaccini possiamo essere qui oggi. E nel pieno della pandemia, stupiscono proprio i numeri dei trapianti, nel 2020 sovrapponibili a quelli del 2019, a significare che non abbiamo lasciato nulla di intentato per curare i nostri pazienti. Ricordo il caso significativo di un trapianto di polmoni, fatto nel pieno della prima ondata, dove si è arrivati fino a Roma per il prelievo degli organi che hanno salvato la vita ad un uomo. Per il nostro Ospedale è un onore avervi qui e credo che per Aido sia simbolico essere in questo luogo tanto legato all’associazione, nella sua storia e nelle sue vicende umane. Personalmente mi sono iscritta all’Aido a 18 anni. Aido aveva 10 anni di vita ma mi sembravano già molti di più. Oggi siamo a 50 anni, un compleanno celebrativo di un’opera assolutamente meritoria, quale quella del fare informazione, del fare sensibilizzazione, del conquistare le persone a un’idea. Viviamo in un momento che i filosofi chiamano di anomia, preda dell’individualismo e dell’egoismo, invece dobbiamo riscoprirci migliori e riscoprire l’importanza di aiutare gli altri. Lo vediamo con i vaccini e lo vediamo con i trapianti. Ho molto rispetto per i nostri professionisti quando devono avvicinarsi alle famiglie che hanno perso un loro caro e penso sempre ai pazienti che attendono una chiamata che restituirà loro la vita. Il mio augurio è che prima o poi il senso di AIDO non serva più perché saremo diventati così attenti alla donazione che diventerà un atto di generosità automatico, lasciato in vita. Oggi di Aido c’è però ancora un grande bisogno… ma arriveremo al momento di questo traguardo. Buon lavoro! Noi confidiamo in voi e voi continuate a confidare in noi perché per voi ci saremo sempre.
Giuseppe Piccolo, Coordinatore Regionale Trapianti Regione Lombardia: Buongiorno a tutti e grazie ad Aido per questo invito. Nel ‘71 avevo 8 anni e non sapevo niente di Aido… ricordo semplicemente un bambino che frequentava la mia scuola ed era giallo: era in dialisi e tempo due anni morì perché la dialisi non funzionava come oggi e al trapianto forse non sarebbe nemmeno arrivato. Ecco, io non sapevo nulla di tutto questo, ero ignaro e inconsapevole come tutti i bambini. Sono passati 50 anni da allora e oggi credo che, dovendo educare gli ignoranti e aiutare quelli che non sanno, questo è il percorso che ha fatto AIDO, con i suoi volontari, che sostengono una causa in prima linea, testimoniandola in prima persona. Ho incontrato molte persone dell’Aido e osservato questa costante, che nel declinare un impegno sociale hanno sempre la forza aggiuntiva di una notevole dirittura morale, facendo corrispondere questo impegno a una vita di senso. 50 anni, dunque, ma con quella capacità di rinnovarsi che oggi viviamo con il lancio di DigitalAido, che traghetta Aido in avanti… e più avanti addirittura dei sistemi informatici regionali. Attualmente sono un collaboratore della Direzione Generale Trapianti Welfare, che cerca di curare una squadra, e la squadra più importante non sono i chirurghi, che senza i donatori non possono fare nulla, ma sono i Coordinamenti di donazione, che in un Ospedale si curano delle persone che sono state curate ma che, nonostante le cure, muoiono, e poi, in quanto soggetti morenti, diventano essi stessi “cura” per degli sconosciuti. Io sono in questa squadra, nel livello regionale, e per me è per la prima volta dopo tanti anni di battaglie dove Aido ha fatto da pungolo alle istituzioni per sostenere l’importanza di consentire negli ospedali di rinforzare quella gamba debole che rappresenta proprio la donazione. Aido è la mia scelta, la scelta che ho fatto con DigitalAido, perché per me Aido “è la scelta di donazione”, una scelta certamente possibile anche in Comune e presso le ASL, ma la scelta con Aido è una scelta precisa, è una scelta di donazione consapevole, fatta in vita e per sé stessi. Aido è la gamba forte della donazione: lo era 50 anni fa, quando era una minoranza e quando in Italia parlare di donazione dopo la morte a qualcuno pareva quasi blasfemia, e lo è ancora oggi, che tutto questo è stato spazzato da una sana informazione di piazza. Il risultato di questo operato sono quei 10 milioni di italiani che si sono registrati favorevolmente rispetto alla donazione, una scelta di cui noi coordinatori ci sentiamo responsabili e che abbiamo il dovere etico di onorare, nel pieno rispetto della volontà donativa dei cittadini. La Direzione Generale Welfare attuale è molto attenta a questo tema, anche perché la Lombardia negli ultimi anni ha vissuto un sensibile calo nelle donazioni (e non solo a causa del Covid), al punto che il Consiglio regionale ha chiesto fortemente di adoperarsi in tutti i modi per aumentare le donazioni. Il piano di rilancio delle donazioni è già cominciato nel terzo trimestre e finalmente abbiamo visto aumentare le donazioni, non solo di organi, ma anche di tessuti, come per esempio le cornee. Donazioni tutte figlie della stessa cura, rappresentata dalla donazione da cadavere, che è ovviamente la donazione più importante e che rende ragione del fatto che dopo 50 anni sono davvero onorato del fatto di essere qui a festeggiare Aido, nella sua storia, ma anche nel suo presente, come associazione ancora in grado di proporre – anche alle istituzioni – delle modalità per sostenere modernamente la cultura della donazione, con i tanti progetti proposti anche in Regione Lombardia, a partire dalle scuole, fino al sostegno agli sportelli comunali di registrazione della volontà. Tutti segnali che rappresentano chiaramente quanto sia forte questa “gamba sociale di solidarietà” che rafforza tutta la rete nella necessità di migliorare, negli ospedali, l’attenzione e la cura per le persone che, dopo le migliori cure che hanno ricevuto (e in Italia le cure sono davvero molto buone), muoiono e diventano “cura per gli altri”.
Monica Vescovi, Presidente Aido Provinciale di Bergamo: Aido vi ospita nella città dove nacque il DOB, 50 anni fa. Ringrazio la dottoressa Stasi per averci ospitato in questo bellissimo Auditorium nonostante l’ospedale Papa Giovanni XXIII sia oggi occupato nelle vaccinazioni. Ascoltare il dottor Piccolo nel suo toccante racconto sul suo vecchio compagno di classe, deceduto – ancora bambino – durante la dialisi, mi ha commosso e ha commosso tutti noi. Anche il nostro fondatore, Giorgio Brumat, fu mosso, nella promozione della cultura della donazione di organi, proprio dalla pena per un bambino in dialisi. E dalla sua intuizione arriviamo all’Aido odierna: l’Aido di Bergamo… l’Aido dell’Italia tutta. Grazie a tutti
Corrado Valli, Presidente Aido Consiglio Regionale della Lombardia: Buongiorno a tutti. Oggi chiudiamo il programma di quest’anno di festeggiamenti del cinquantesimo del DOB – Aido, un programma, anzi, che il Covid-19 ci ha costretti a comprimere in sei mesi, da giugno in poi, e lo chiudiamo con la manifestazione che a mio avviso è quella più importante e più emozionante: abbiamo qui con noi i medici – gli scienziati – che hanno fatto la storia dei trapianti e che ancora opereranno in questo settore, ed è questo il modo più bello, a mio parere, per celebrare i 50 anni di storia della nostra associazione, una storia che abbiamo definito “meravigliosa” così come è stata “meravigliosa” l’evoluzione dei trapianti in questi ultimi decenni. Inizialmente la grafica del convegno era una traccia di un elettrocardiogramma che univa il 1971 – anno di nascita del DOB – al 2021, a significare idealmente il cuore che batte forte nel petto dei volontari di AIDO, unito al cuore che batte forte nel petto dei nostri trapiantologi, che con passione, determinazione e tenacia hanno inseguito un sogno, quello di poter ridare la speranza di vita ad una persona alla quale la vita stava scomparendo. E’ il cuore che noi volontari siamo abituati a buttare oltre l’ostacolo anche quando si frappongono mille difficoltà. E’ il cuore che batte forte nel petto dei dirigenti dei 400 gruppi che compongono l’Aido Lombardia. Nella nostra cultura abbiniamo sempre il cuore alla generosità: ecco, io faccio appello alla generosità perché tocchi il cuore delle persone, affinché, con decisione e convinzione, dicano sì alla donazione di organi, dicano sì alla vita. Grazie.
Leonio Callioni, Vice Presidente Nazionale Vicario di AIDO: Grazie anche da parte mia e un ben ritrovati a tutti. Siamo ormai – posso dire – tra amici, anche con le persone che rappresentano la scienza, che rappresentano la ricerca, che rappresentano la chirurgia e la medicina, perché siamo tutti uniti da un unico ideale. Ringrazio il comitato promotore dei festeggiamenti del DOB – Leonida Pozzi, Corrado Valli e Monica Vescovi – per aver invitato Aido Nazionale. Porto, dunque, il saluto della Presidenza nazionale, che guarda a Bergamo e alla Lombardia di Aido con particolare attenzione, con grande rispetto e con fiducia, nella sua capacità – fin dalle sue origini – di illuminare l’orizzonte operativo dell’associazione. Le cose importanti sono già state dette, quindi chiedo scusa se non ripeto concetti assolutamente condivisibili e già molto ben espressi. Aggiungo soltanto una provocazione lanciata dal direttore generale dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII nel suo precedente intervento. La dottoressa Stasi ha provocato in me una riflessione sulla prospettiva futura di Aido: è vero, tutti condividiamo la speranza che un giorno Aido “non serva più”. Questi tempi, però, mi hanno portato a una riflessione e mi riferisco proprio alla campagna anti-culturale di chi non vuole il vaccino e, così facendo, non accetta le proposte della scienza. Oggi Aido serve, serve ancora e serve tanto. Serve per spingere le manifestazioni di volontà alla donazione di organi, ancora insufficienti a far fronte al fabbisogno dei pazienti, e semmai si arriverà, nel nostro Paese, ad una nuova consapevolezza tale da portare alla quasi totalità dei consensi degli italiani, la nostra associazione potrebbe servire per affiancare le istituzioni nel tenere sempre viva la proposta culturale della solidarietà sociale nella coscienza civile ed etica dei cittadini. Se trascurassimo questo aspetto, infatti, presto o tardi ci troveremmo di fronte ad un deserto di motivazioni che ci ricondurrebbe ad un inevitabile crollo delle manifestazioni positive di volontà. Il consenso alla donazione è un atto che non costa nulla e che salva vite e se possiamo dire che vivono grazie al trapianto un numero tra i 50.000 e i 60.000 cittadini italiani, che sono figli, padri, madri e sorelle e che portano nuova linfa nella nostra comunità, vuol dire che questo ideale ha prodotto qualcosa di concreto, grazie all’opera di chi, come Aido, ci ha sempre creduto, e grazie ai professionisti meravigliosi di un sistema sanitario, come quello italiano, che non potrebbe essere più vicino ai cittadini, anche se migliorabile. Aido è pronta a lavorare per migliorarlo, in particolare ragionando sulla possibilità di portare l’attenzione sulla donazione laddove questa manca. Dove non c’è una donazione, c’è qualcun altro che perde la possibilità di continuare a vivere e se ancora oggi, in una nazione così evoluta, ci sono mediamente 400/500 persone che muoiono a causa della scarsità di organi donati, allora vuol dire che Aido non può fermarsi. E non può fermarsi perché c’è gente che sta male, che muore e che aspetta il nostro contributo. Grazie.
Leonida Pozzi, già Presidente Aido Consiglio Regionale della Lombardia e Presidente Aido Sezione Provinciale di Bergamo: Buongiorno a tutti, benvenuti a questo convegno. È con grande commozione che mi accingo ad aprire i lavori di questo importante convegno sui cinquant’anni di trapianti dalla fondazione del DOB ad oggi. In questo modo si conclude l’intenso, e, a mio avviso, proficuo lavoro del Comitato per gli eventi le celebrazioni dei 50 anni della nascita del DOB, formato, oltre che da me, dalla Presidente Aido Provinciale di Bergamo Monica Vescovi e dal Presidente Aido Regionale Lombardia Corrado Valli. Ci apprestiamo a partecipare ad un convegno che onora la città e la provincia di Bergamo, perché questo territorio, in tema di donazione e trapianto d’organi, tessuti e cellule, è all’avanguardia in Italia (e ciò significa che è all’avanguardia nel mondo). Faccio una fugace digressione sulla storia dell’Aido, l’Associazione Italiana Donatori Organi, che divenne poi Associazione Italiana per la Donazione di Organi, Tessuti e cellule, per ricordare come il territorio di Bergamo abbia accolto e nobilitato il primo convegno scientifico sul tema della donazione e dei trapianti, organizzato in occasione della prima Assemblea Nazionale dell’Aido, che si svolse a San Pellegrino Terme dal 19 al 21 settembre del 1975 e anche allora, come sempre in seguito nella storia dell’Associazione, l’approfondimento scientifico si pose come momento di approfondimento e di orientamento della politica rispetto alle norme da approvare per favorire la diffusione della donazione e del trapianto. Questo ruolo fa della DOB e dell’Aido i pilastri di una rivoluzione socio-culturale e sanitaria che hanno permesso al sistema sanitario, popolato di stupendi ricercatori, di magnifici medici, di meravigliosi chirurghi, di salvare tante vite e di rendere il post trapianto – tecnicamente il follow-up – un trattamento sanitario di grande sicurezza, che dona tanti anni di vita… quella vita che, altrimenti, la malattia avrebbe drammaticamente distrutto. La sintesi tra scienza, ricerca, chirurgia e associazione di volontariato fu sempre nelle intenzioni di Giorgio Brumat, il fondatore della DOB, nel 1971, e, poco più di un anno dopo, dell’Aido. Giorgio Brumat, quando ebbe questa meravigliosa ispirazione di fondare un’associazione che avesse lo scopo di donare gli organi umani per la cura di certe patologie che non potevano essere curate diversamente, cominciò a frequentare il nostro Ospedale di Bergamo, che oggi è intitolato al Papa Giovanni XXIII, dopo essere diventato Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo. Qui si rivolse all’ufficio legale allora condotto dal Professor Alfredo Guarnieri, interpellò anche il professor Giuliano Mecca, primario della nefrologia, e diversi medici e chirurghi con lo scopo di acquisire la certezza che la sua idea potesse diventare realtà. Quindi possiamo affermare che la DOB nacque agli Ospedali Riuniti di Bergamo, vera culla della nostra Associazione. Da parte nostra siamo sempre stati attenti e collaborare con le strutture ospedaliere, con il dovuto rispetto dei ruoli, per elaborare una linea sanitaria dei prelievi e dei trapianti, facendo, nel contempo, da cassa di risonanza per la diffusione dell’ideale associativo nella società civile. Così, prese sempre più forza quella parte della medicina che, attraverso la donazione e il trapianto, restituiva la vita a coloro che erano altrimenti destinati a sicura morte o, al più, ad una vita di precarietà e sofferenza. È a Brumat, quindi, che dobbiamo innanzitutto rivolgerci, non solo per un ringraziamento, ma per un omaggio doveroso e grato. Peraltro, voglio ricordare qui l’omaggio attribuito all’indimenticabile Giorgio dal Consiglio Comunale di Bergamo, che, all’unanimità, ha deliberato la traslazione delle spoglie mortali di questo grande uomo nel Famedio della città, translazione avvenuta con tutti gli onori nello scorso mese di luglio, proprio nell’anno dei cinquant’anni della fondazione del DOB di Brumat. Per dare il senso della radice più profonda delle grandi gesta umane che hanno segnato i cinquant’anni di trapianti, dal 1971 ad oggi, ho cercato di prepararmi al meglio, consapevole che ci vorrebbero libri per raccontare l’avventura di Brumat. Ho avuto l’onore di conoscere personalmente Giorgio e di essergli amico, oltre che di essergli stato vicino in tante avventure per lunghi anni. Quello che oggi si dà per scontato, in realtà è stato il frutto di intuizioni geniali, addirittura profetiche, portate avanti con la fiducia delle grandi anime quale fu sicuramente Giorgio Brumat, che si sentì fin da subito circondare di amici fidati e preziosi. A lui e alla sua straordinaria intuizione, germogliata dal suo profondo sentimento di umana solidarietà, noi oggi vogliamo dire il nostro grazie, nel segno della solidarietà umana e, in particolare, di quella nuova forma di solidarietà allora quasi sconosciuta, che vuol dire dare liceità alla donazione di una parte del proprio corpo a favore di una persona, di una sorella o di un fratello nostro simile, che ne ha bisogno per continuare a vivere: un gesto gratuito, anonimo, di pura generosità umana e civile, un gesto che, per i cristiani e per tante persone di fedi diverse, esprime quel concetto che tanto bene ebbe a sintetizzare San Giovanni Paolo II come la capacità di proiettare oltre la morte la vocazione all’amore. Nella storia dell’Aido, la figura del fondatore Giorgio Brumat spicca come figura impressa in modo indelebile, perché era un uomo generoso e cordiale che credeva nell’Associazione da lui voluta, con fede incrollabile. Per l’Aido e per favorire la chirurgia dei trapianti, era pronto ad ogni sacrificio, convinto com’era dall’altissimo valore della donazione, ma altrettanto convinto della necessità di un impegno totale volto a creare nei cittadini una coscienza della donazione che, seppure mutata dalle radici cristiane e morali, sapesse assumere valori civili e sociali. Chi ha collaborato con lui non potrà dimenticare le sue doti umane, la sua serenità di giudizio, la sua innata dirittura morale. In noi bergamaschi, lui, friulano, aveva scoperto insospettate qualità che lo spinsero a testimoniare, in occasione del ventesimo di fondazione dell’Aido, non solo il suo profondo affetto per Bergamo, una città di adozione e di elezione, ma a dichiarare che solo i bergamaschi avevano quelle doti di riservatezza e generosità indispensabili per rendere possibile la fondazione di un’Associazione di donatori di organi e per dare alla stessa l’indispensabile ulteriore sostegno. I relatori di questo prestigioso convegno sono professori e medici illustri che hanno dato inizio e forza alla medicina dei trapianti. Ricordo fra tutti, come esempio luminoso, la professoressa Luisa Berardinelli, quando giovane medico venne a Bergamo nel 1973 a prelevare i reni di Tiziano Sordelli, giovane studente che morì in un incidente stradale e che fu il primo donatore a Bergamo. Ricordo il dottor Paolo Ferrazzi che fece il terzo trapianto di cuore proprio a Bergamo, nel 1985, con un esito estremamente positivo. Ricordo il professor Luigi Raniero Fassati, che, con il professor Dinangelo Galmarini, fece uno dei primi trapianti di fegato nel lontano 1983, e con lui il professor Michele Colledan e così tutti gli altri con le specializzazioni e le professionalità sviluppate nel settore dei trapianti di organi, che sono qui presenti: il loro impegno dà senso e onore a questo convegno, che chiude le manifestazioni per il cinquantesimo di Fondazione del DOB. A loro va il grazie di tutti noi e mio personale, onorato a mia volta di essere stato definito da NITp, fondato dal professor Girolamo Sirchia, “pioniere dei prelievi e veterano dell’Associazione”. A nome di tutta Aido, diamo inizio al convegno, augurando a tutti voi che alla fine troviate le vostre opportune conclusioni e nella speranza che tutto quello che andremo ad apprendere oggi diventi patrimonio culturale di tutti noi e fonte di rinnovato entusiasmo per la diffusione della cultura della donazione. Con grande commozione per la solennità di questo momento, ringrazio tutti per la presenza e auguro buona partecipazione ai lavori.
Gianmariano Marchesi, già Direttore e Anestesista della Rianimazione ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Donazione ieri. Buongiorno a tutti e grazie di essere qui. Parlare di “donazione ieri” occuperebbe moltissimo tempo, ma conta molto di più parlare dell’oggi e soprattutto del domani, quindi sarò veramente breve. Semplicemente: che cosa succedeva allora? Inizialmente c’era solo la donazione di reni e ricordo quando, giovanissimo, cominciai con le prime donazioni: la professoressa Berardinelli e il professor Fassati venivano a prelevare i reni nella saletta operatoria della Rianimazione Generale. Allora c’era una sola Rianimazione; oggi esistono la Terapia intensiva neurochirurgica adulti, pediatrica e cardiochirurgica quindi molto è cambiato. Si donavano solo i reni e gli accertamenti duravano 24 ore e ogni tanto alcuni donatori non arrivavano alla donazione perché il cuore si fermava prima e perché avevamo meno conoscenze rispetto a quelle che abbiamo ora ed eravamo meno capaci di gestire una condizione al di là dell’estremo come è quella – assolutamente anomala – della persona deceduta, per la quale, però, dobbiamo mantenere un equilibrio per poter giungere alla donazione di organi biologicamente donabili, ossia utilizzabili e quindi sostanzialmente organi praticamente perfetti. Le conoscenze erano poche ed erano pochi e meno sofisticati anche gli strumenti per la selezione dei donatori: quando un potenziale donatore diabetico era candidato alla donazione degli organi, veniva eseguita l’analisi del fondo dell’occhio della retina, perché se la retina fosse stata già compromessa dal diabete, verosimilmente anche i reni non sarebbero stati efficacemente trapiantabili; oggi viene eseguita la biopsia dei reni trapiantati, e si procede ad un’analisi molto raffinata della funzionalità e delle caratteristiche anatomiche del rene, quindi molto è cambiato. Anche la gestione del donatore in sala era estremamente diversa: dovevamo arrivare alla donazione degli organi e utilizzavamo delle strategie anche farmacologiche che oggi ci farebbero inorridire perché sono cambiati i farmaci ed anche gli strumenti che abbiamo a disposizione e riusciamo a portare alla donazione dei potenziali donatori che sicuramente allora non sarebbero arrivati alla donazione vera e propria. Questo era il primo Registro che tuttora conserviamo e in prima pagina vediamo il primo donatore a Bergamo – anno 1972, Sordelli Tiziano – un registro che poi siamo riusciti pazientemente a informatizzare e che ci ha permesso di acquisire delle informazioni semplici ma estremamente interessanti per capire come stava cambiando e come noi dovevamo cambiare l’approccio alla donazione. Quanto alla tipologia della lesione in trent’anni, dal 1972 al 2002, inizialmente avevamo a che fare con dei traumatizzati e molto meno – quasi nulla – era rappresentato da fenomeni neurologici. Erano quasi tutti traumi, che progressivamente sono diminuiti e sono, invece, aumentate le patologie cerebrali primitive. Ciò anche grazie alla prevenzione dell’infortunistica stradale, la quale ha modificato anche il sesso dei donatori, perché mentre prima i donatori erano prevalentemente maschi, progressivamente – sempre in questi trent’anni – le due linee – i maschi e le femmine – sono andate via via riunendosi e l’età è cambiata: all’inizio avevamo una media molto bassa, 25/26 anni, composta da molti ragazzi giovani che cadevano con il motorino, laddove esistevano anche altre capacità di cura del trauma cranico. Oggi, grazie alla prevenzione e alle migliorate capacità di cura, fortunatamente questi giovani donatori sono estremamente rari e progressivamente l’età media è aumentata, causando la necessità di imparare a gestire donatori di età più avanzate, con metodiche di identificazione dell’idoneità degli organi sempre più complesse. Ebbene, tutto ciò è stato fatto perché c’è stato un impegno, un impegno continuo di crescita culturale, di aggiornamento scientifico e anche di crescita organizzativa. Ad essere cambiato è anche l’approccio alla donazione: prima dovevamo “chiedere il consenso”, in un certo qual senso, ai familiari del donare, caricandoli di un peso difficile da portare in quella situazione. Oggi, avendo la possibilità di esprimere in vita la propria volontà, a quella viene fatto riferimento e questo è un passaggio decisamente favorevole anche per le famiglie perché rispettano la volontà del loro caro e sono contente di farlo e quindi la donazione diventa un diventa parte di una cultura. Questo concetto di crescita culturale lo abbiamo sempre colto, fin da quando il professor Maritano, che è stato un po’ il pioniere della donazione per noi rianimatori qui a Bergamo, ci ha insegnato che perdere un donatore voleva dire perdere molti malati in attesa di trapianto perché, se prima vi erano solo donazioni di rene, oggi sono praticamente tutte donazioni multiorgano e multi tessuto, compatibilmente con l’idoneità biologica degli organi. A lui è succeduto il dottor Vincenzo Gravame, che per primo è stato nominato Transplant Cordinator, una figura che ha un ruolo fondamentale nel sostenere e nel promuovere in tutti i modi la donazione, sia dal punto di vista tecnico, che dal punto di vista culturale e finanche relazionale. A lui è succeduto il dottor Mariangelo Cossolini, ideatore di tante iniziative, tra le quali mi piace ricordare l’incontro con decine di migliaia di studenti di 17 e di 18 anni, all’interno di un percorso che conteneva, nella più ampia argomentazione della tutela della vita (con tutta la materia della prevenzione dell’infortunistica), anche la donazione di organi, e questo percorso è stato portato avanti sempre anche con la collaborazione di Aido. Gli è succeduto il dottor Ferri che, assunto in un altro ruolo in un altro Ospedale, ha ceduto l’incarico alla dottoressa Elena Buelli, alla quale cedo la parola.
Elena Buelli, referente del Coordinamento dei prelievi e dei trapianti d’organo della ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Donazione oggi. Buon pomeriggio e grazie per la presentazione. Io parlerò della “Donazione oggi”. Come si è già accennato, si diventa donatori esprimendo una scelta e questa scelta negli anni è cambiata. La legge in vigore nella nostra nazione è ancora quelle del ‘99, dove a tutti i cittadini maggiorenni è data la possibilità, e non l’obbligo – ovviamente – di dichiarare la propria volontà. La volontà si dichiara, ad esempio, tramite gli uffici dell’Anagrafe Comunale – un grande progetto portato avanti negli anni che rappresenta una grande facilitazione – ma l’innovazione che quest’anno Aido ha promosso è DigitalAido, con la possibilità di esprimere un Sì digitale in vita, in un universo tecnologico dove tantissimi giovani sono immersi e che, infatti, nella giornata di lancio del consenso digitale tramite sito e App, hanno partecipato numerosi ed entusiasti, proprio qui a Bergamo, proprio nel mio primo incontro ufficiale con Aido. Dunque, nel corso degli anni, il Sì è cambiato e dovrà ancora cambiare e sarà un Sì sempre più importante. L’espressione della volontà, negli ultimi anni, è anche informatizzata, tramite il cosiddetto SIT (Sistema Informativo Trapianti), un sistema informativo nazionale, dove gli operatori abilitati degli Ospedali italiani, e con una ricerca specifica con nome e cognome, data di nascita e codice fiscale, possono vedere dichiarata la volontà del paziente e quindi conoscere se lo stesso ha espresso in vita la sua volontà. Anche l’approccio con i familiari è cambiato negli anni, perché conoscendo prima la volontà di un probabile donatore, anche l’operatore sanitario affronta con maggiore serenità il colloquio con la famiglia alla quale, nello stesso tempo, si toglie il peso di una scelta in un momento orribile della propria esistenza. Quanto alle tipologie di donatori, oggi parliamo anche di donatore da vivente, una persona che decide di donare in modo altruistico e volontario un organo, in genere a un proprio familiare. L’altra tipologia è il donatore da cadavere, che a sua volta può essere di due tipi. La prima tipologia è il donatore in stato di morte cerebrale e in questo caso si deve procedere a una dichiarazione di accertamento di morte da parte di un collegio medico formato da tre componenti, che si radunano in due incontri dopo sei ore (un tempo, diceva il dottor Marchesi, si parlava di 24 ore), durante le quali si effettuano le indagini per constatare la morte con criteri neurologici. L’altra tipologia di donatore è un paziente in stato di morte cardiaca e quindi si procede ad un accertamento della stessa con un cardiogramma che, per 20 minuti, deve risultare piatto. Questi donatori vedranno poi rigenerati i loro organi con tecniche di perfusione extracorporea. La seconda tipologia di donatori – relativamente recente – è molto più impegnativa ma lo sforzo dei sanitari è volto a migliorare e ad incrementare queste tipologie di donazioni a cuore fermo per poter far fronte al fabbisogno di organi drammaticamente superiore alle disponibilità (Ospedale Papa Giovanni XXIII: dal 2012 ad oggi: 335 DBD – in morte cerebrale – e 25 DCD (con sforzo di incremento temporale) – in morte cardiaca -; età media 49,4 anni (con trend in aumento) – negli anni ,70, ’80 e ’90 l’età media era la metà; il sesso vede più donatori uomini – non solo per patologia – mentre le donne si sono ridotte ed è aumentata la loro età media).
Stefania Camagni, Dirigente medico di Chirurgia Generale 3 Dipartimento di insufficienza d’organo e trapianti dell’ASST Papa Giovanni XXIII. Ricondizionamento di organi. Buongiorno e grazie per l’invito. Mi è stato chiesto di parlare di ricondizionamento degli organi, che è la nuova frontiera del trapianto degli organi solidi. Faccio una breve premessa: cosa succede a un organo destinato al trapianto? A un certo punto, nel donatore viene interrotto il flusso di sangue diretto all’organo e inizia la fase di ischemia che termina nel ricevente dopo l’impianto dell’organo quando viene ripristinato il flusso di sangue. La fase di ischemia deve essere più breve possibile perché in questo intervallo di tempo, all’interno dell’organo, si sviluppano delle alterazioni che poi si manifestano dopo la sua riperfusione dopo il trapianto, sotto forma di danno da ischemia. La riperfusione, e quindi la fase di preservazione extracorporea ex-situ dell’organo, è cruciale. Finora il gold standard è stato rappresentato dalla conservazione statica in ghiaccio, cioè gli organi prelevati vengono messi dentro dei sacchetti sterili contenenti una soluzione sterile particolare e questi sacchetti a loro volta vengono riposti in termos da picnic pieni di ghiaccio, al fine di rallentare il più possibile il metabolismo dell’organo ischemico con la bassa temperatura. Se il ricondizionamento degli organi è la nuova frontiera dei trapianti, la loro perfusione extracorporea non è niente di nuovo. Già negli anni ’60, il dottor Belzer girava per la California con un furgoncino trasportando una macchina per la circolazione extracorporea di reni prelevati da cadaveri e nel 1968 pubblicò, su una delle riviste mediche più prestigiose, il primo trapianto di un rene, prelevato da un cadavere, conservato in questo modo per 17 ore, ma i risultati clinici non erano però tali da giustificare una metodica così complessa e logisticamente scomoda e quindi questa tecnica fu abbandonata. Anche il dottor Belzer stava sulle spalle dei giganti, infatti nel 1938 Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina, e Lindbergh, aviatore noto per la trasvolata oceanica, finirono sulla copertina del Time per aver sviluppato una pompa grazie alla quale erano riusciti a tenere in vita organi animali fino a 30 giorni: tiroidi, pancreas e ovaie. Oggi, la perfusione extracorporea del fegato, dei reni, dei polmoni e del cuore, è pratica clinica. Io mi concentrerò nella mia esposizione sul fegato, che è l’unico organo del nostro corpo dotato di una doppia perfusione – il circolo portale e il circolo sistemico – che hanno caratteristiche e funzioni diverse. Proprio per la sua doppia circolazione, la sua perfusione extracorporea è più complessa di quella degli altri organi, il fegato sta in un catino, la vena porta e l’arteria epatica sono incanulate e delle pompe che sono le X cerchiate e sostituiscono il cuore, pompando dentro questi vasi un fluido particolare. Questo fluido viene ossigenato da un ossigenatore che è, nel disegno, il rombo rosa, che sostituisce i polmoni. Grazie alla tecnologia, abbiamo la possibilità di scegliere la temperatura delle nostre perfusioni: i setting più comuni sono l’ipotermia tra i 4 e i 12 ° e la normotermia 37 °, con delle sfumature intermedie su cui non mi soffermo. Ciascuno di questi setting ha delle sue peculiarità. La perfusione extracorporea del fegato serve al ricondizionamento, cioè al miglioramento delle caratteristiche dell’organo. Durante la fase di ischemia, l’organo consuma le sue riserve energetiche che la perfusione corporea riesce a rigenerare e questo consente al fegato di affrontare la fase delicata della riperfusione in condizioni migliori. La perfusione extracorporea serve a valutare la funzione di organi sulla cui qualità abbiamo dei dubbi, serve per allungare il tempo di preservazione extracorporea ex-situ dell’organo e, in un futuro probabilmente non troppo lontano, servirà anche a somministrare degli interventi terapeutici: per esempio cellule mesenchimali per il controllo del rigetto o sostanze “sgrassanti” per sgrassare i fegati steatosici e cioè grassi. E perché ci serve la perfusione extra-corporea del fegato? Ci serve per fare più trapianti, perché, potendo migliorare la qualità degli organi e potendone valutare la funzione, possiamo trapiantare organi che magari in passato avremmo scartato; ci serve per guadagnare tempo (a volte ci sono dei riceventi che prima del trapianto devono fare dei trattamenti che richiedono tempo); infine, ci serve, per esempio, quando dobbiamo cambiare riceventi in corso d’opera e il risultato finale è comunque un outcome migliore. In commercio esistono diversi device per la perfusione extracorporea del fegato, alcuni trasportabili altri no, tutti molto costosi… addirittura una singola perfusione può arrivare a costare decine di migliaia di euro e noi in collaborazione con i nostri perfusionisti, grazie al materiale della cardiochirurgia, abbiamo progettato e realizzato un circuito per la perfusione extracorporea ipotermica ossigenata del fegato estremamente performante ma anche molto economico e riusciamo a fare una perfusione spendendo meno di 3.000 €. La perfusione extracorporea del fegato ci consente di fare molte cose, per esempio anche di dividere un fegato per trapiantare due riceventi. Lo split liver normalmente in Italia si fa in situ, nel donatore a cuore battente, ma non sempre questo è possibile e, dovendolo fare ex-situ, è meglio farlo col fegato perfuso. I colleghi del centro di Zurigo stanno sviluppando una macchina in grado di tenere il fegato funzionale in condizioni fisiologiche in normotermia addirittura per una settimana. Concludo con una vignetta che mi ha mandato un perfusionista e che potrebbe essere il futuro della perfusione extracorporea, cioè la centralizzazione in hub dedicati del condizionamento e della valutazione funzionale. Grazie.
Luisa Berardinelli, già Direttore dell’Unità di Chirurgia Generale e dei Trapianti di Rene della Fondazione Ca’ Granda di Milano, Professore dell’Università degli Studi di Milano, titolare della cattedra di Chirurgia sostitutiva trapianti d’organo ed organi artificiali. Il trapianto di rene ieri. Dal 1966 al 1968 furono effettuati 3 trapianti di reni, di cui due a Roma col Prof. Stefanini (che ebbe peraltro dei problemi giudiziari per non aver rispettato le leggi), e il terzo, nel 1968, con il Prof. Confortini. Io, nel 1965, appena arrivata da Firenze, la mia città, ho iniziato con il Prof. Malan un programma di trapianti e trascorso un periodo a Verona per imparare ad effettuare la dialisi, perché nel programma di trapianto bisognava pensare anche a quello che accadeva nel decorso post-operatorio. A quell’epoca, la dialisi durava ben dodici ore al giorno, a giorni alterni, e si utilizzavano i reni artificiali di Kill. Dal 1965, applicammo i primi Shunt esterni, che duravano poco. Nel frattempo, miglioravano gli apparecchi da dialisi e acquistammo un nuovo Travenol per le camere sterili. Nel 1967, effettuammo la prima fistola arterio-venosa distale radio-cefalica al polso con due incisioni, la prima in Italia, che perfezionammo poi con l’incisione unica, diventando rapidamente chirurghi vascolari sommersi da richieste di accessi vascolari da tutta Italia. Iniziammo poi la dialisi nel bambino, effettuando delle modifiche tecniche del tutto particolari, come le Fav prossimali, ed affrontando con successo casi del tutto particolari, operando degli Shunt applicati di Allen Brown ed altri tipi. Utilizzammo le protesi a loop dell’avambraccio per mantenere i pazienti in buone condizioni dialitiche fino al trapianto. Dal 1985 al 2013, abbiamo praticato oltre 18.000 accessi vascolari per 283 centri italiani. Il 22 maggio del 1969, a Milano, finalmente, il Prof. Malan (io ero sua collaboratrice con il Prof. Vegeto e con il Prof. Berti) fece il primo trapianto da donatore deceduto (in arresto cardiaco, perché non era ancora legalmente possibile prelevare i reni a cuore battente), proponendo intelligentemente questa modalità come priorità in un momento in cui la maggioranza dei chirurghi facevano i trapianti da donatori viventi. Dal 22 maggio del 1969 al 31 dicembre del 2013, nel primo periodo della nostra esperienza, registrammo 703 trapianti. In questo periodo furono aperti altri centri trapianti con cui scambiavamo i reni, il che condusse nel tempo a una equidistribuzione degli organi tra gli stessi. Nel 1980 (dati di ANED) l’attività del nostro centro registrava, con 467 trapianti, oltre 1/3 dell’attività di tutta Italia che, in quel momento, registrava un totale di 1263 trapianti. Le caratteristiche del nostro centro trapianti sono state la presa in carico totale del paziente uremico, sia nel periodo pre-trapianto (ottimizzazione dell’accesso vascolare, safenectomia, ernioplastica, ecc.) che in quello post-trapianto (con gli stessi pazienti che si affidavano alle nostre cure – per qualsiasi problematica – grazie alla fiducia instaurata con la nostra struttura), la collaborazione con altri specialisti e lo studio delle migliori politiche chirurgiche da adottare in base ai risultati della personale casistica, il recupero dei reni danneggiati con tecniche microchirurgiche originali e apparecchi di nostra invenzione, una disponibilità totale anche a praticare il prelievo anche in “sgabuzzini” delle Rianimazioni, la disponibilità ad affrontare situazioni non convenzionali ed estreme (anomalie vascolari/parenchimali/urologiche, danni al prelievo), l’adozione di tecniche mini invasive per il prelievo da living donor e per il trattamento di eventuali complicanze del trapianto, e poi il prelievo e il trapianto in età estreme. Quanto ai trapianti pediatrici, mi piace ricordare il Prof. Selvaggio di Milano. Il nostro centro può vantare anche l’invenzione delle tecniche operatorie della nefrectomia con mini-incisione sottocostale extraperitoneale nel LD (living donor) molto meno invasivo della lomboctomia tradizionale e con dimissioni in seconda/terza giornata (nella foto, peraltro, il donatore vivente è il mio più vecchio aiuto, con un rene prelevato con un taglietto di soli 10 cm su un uomo di 100 kg). Il Prof. Malan era un uomo estremamente generoso, da subito attivammo uno scambio degli organi con altri centri in modo da trovare il miglior ricevente, un goal costante nell’attività del nostro centro. L’età dei donatori è andata sempre aumentando, nel 1983 non avevamo effettuato nessun prelievo in pazienti di età superiore ai 60 anni, mentre nell’ultimo periodo della nostra esperienza (dal 1983 al 201) abbiamo effettuato dei prelievi, sia da donatore vivente che da donatore deceduto, da pazienti anche di 77 e 78 anni. Abbiamo trapiantato un grosso numero di bambini che arrivavano da tutta Italia (e nei trapianti pediatrici occorre adoperare delle avvertenze molto particolari), e, sempre relativamente ai trapianti pediatrici, abbiamo trapiantato in blocco i due reni nel caso di bambini molto piccoli con un’ottima funzionalità nell’immediato decorso post operatorio e anche tardivamente (in foto, uno dei primissimi trapianti in blocco, un trapianto da record che ha tagliato i 45 anni di trapianto). Nella generosità del professor Malan, d’insegnamento per tutti i suoi collaboratori, il nostro centro, esperto in chirurgia vascolare, ha sempre tenuto i reni anomali per inviare ad altri centri, di minore esperienza e di nuova costituzione, i reni normali (nella tabella, 811 corrisponde a circa il 35% di anomalie maggiori). Quanto ai ritrapianti, dal 1969 al 2013, ne sono stati effettuati 271 in secondo o terzo trapianto, con risultati sovrapponibili al primo trapianto, grazie al miglioramento negli anni delle terapie immunodepressive. Il nostro centro effettua con successo trapianti simultanei del rene con altri organi. Nel 1989 abbiamo effettuato, inoltre, la prima colecistectomia videolaparoscopica in una paziente trapiantata di rene al fine di offrire il meglio (di quello che potevamo) ai nostri pazienti. In 11 nostri pazienti, seguiti nel post-trapianto, abbiamo avuto degli aneurismi dell’aorta addominale che abbiamo trattato con accorgimenti particolari, proprio per proteggere a valle i reni trapiantati. Le novità della terapia immunodepressiva hanno portato ad una sopravvivenza significativamente migliore. Anche la riabilitazione del paziente trapiantato è ottimale e i risultati sono ovviamente migliori quanto prima il paziente viene trapiantato: anche su questo fronte il nostro centro ha tagliato il record di una paziente che ha effettuato il primo trapianto renale dopo 39 anni di dialisi… è andato bene, però la riabilitazione è stata più complicata. Tra i più bei risultati della riabilitazione vi è senza dubbio la possibilità per la donna di avere dei figli (in foto due pazienti che si erano conosciuti durante i controlli, entrambi trapiantati, che hanno avuto una bellissima bambina superando, fortunatamente, i nostri iniziali dubbi e perplessità). Guardando, infine, ai progressi dei trapianti di rene, possiamo citare la possibilità di prelievo a cuore battente, il miglioramento delle apparecchiature, delle tecniche chirurgiche e delle possibilità di conservazione degli organi (anche per molto tempo), l’introduzione dell’eritroproietina – con un considerevole miglioramento della qualità della vita del paziente dializzato – e l’adozione delle trasfusioni di emocomponenti leucodepleti, lo sviluppo della Rete Trapiantologica, che dà migliore qualità, efficienza e trasparenza, l’utilizzo di organi anche non ottimali, l’introduzione dei nuovi farmaci immunodepressori, il trapianto da donatore vivente anche da non consanguineo, la diffusione della donazione samaritana e del trapianto cross over e, infine, le tecniche di prelievo laparoscopico e con robot. I “miei” numeri: nella mia carriera, ho eseguito come primo operatore un totale di 1152 trapianti, di cui 260 da donatore vivente e un numero totale di 1006 prelievi, di cui 296 di rene, ovviamente singolo, da living donor; sono stata autore di un’ottima equipe, allevata dagli anni dell’università, che ho portato fino alla pensione; sono stata tutor in 531 trapianti e in 608 prelievi. Un pensiero per Bergamo: è stata una città meravigliosa per quanto riguarda la donazione, esemplare per tantissime altre realtà. Gap di genere? Devo dire che non ho sofferto alcun problema ed anzi ho sempre avuto un ottimo rapporto con i miei colleghi, ma è pur vero che “qualsiasi cosa facciano le donne, lo devono fare due volte meglio degli uomini, per essere considerate la metà di quanto lo siano loro. Per fortuna, non è difficile” (Charlotte Whitton). Grazie ai nostri maestri, grazie ai nostri collaboratori, ai chirurghi, anestesisti, nefrologi, infermieri del Policlinico di Milano, grazie a tutti i colleghi di tutti gli altri centri trapianti, in particolare Bergamo. Grazie ai nostri pazienti che hanno creduto in noi e che con noi hanno lottato per ottenere una vita migliore.
Flavia Neri, Dirigente medico della Chirurgia Terza dell’ASST Papa Giovanni XXIII. Il trapianto di rene oggi. Buon pomeriggio a tutti, a me il compito di parlare di trapianti di rene oggi. Parto da una domanda: “perché è importante fare il trapianto di rene?” Tutti sanno che, rispetto a quando iniziò la dialisi, oggi essa è molto più efficace ed effettivamente, sia in acuto che in cronico, centinaia di migliaia di pazienti sono salvati quotidianamente dal trattamento dialitico. Sappiamo anche che i pazienti dializzati si recano almeno tre volte alla settimana in Ospedale e sono stanchi e affaticati per la maggior parte del tempo della loro vita, a notevole compromissione della loro qualità di vita. Dopo il trapianto di rene, i pazienti ricominciano a lavorare e il lavoro è specchio di un ritorno alla normalità e ad una di una qualità di vita accettabile. A molti sfugge però che il trapianto, rispetto alla dialisi, rappresenta anche una chance di sopravvivere più a lungo: di fatto, nel lungo termine, dopo un primo periodo post operatorio, i pazienti trapiantati sopravvivono di più rispetto ai pazienti in dialisi ed hanno una percentuale di rischio di morte pari alla metà rispetto agli stessi. Quindi, per rispondere alla domanda. il trapianto di rene va fatto perché allunga la sopravvivenza, oltre che migliorare notevolmente la qualità di vita. Proseguo con una seconda domanda: in Italia, come sono i risultati del trapianto? Sono molto buoni, con una sopravvivenza dell’organo, a un anno dal trapianto, del 94% e con una sopravvivenza del paziente, sempre a un anno, del 97% (dati in linea con Europa, America e Inghilterra). Il rovescio della medaglia dello scenario descritto è che tanti più pazienti chiedono il trapianto di rene e ovviamente anche tanti più medici lo propongono come terapia e in questo modo il trapianto di rene diventa “un lusso”: a gennaio 2020 erano in lista più di 6.000 pazienti e 1800 si sono iscritti nel corso dell’anno, per un totale di più di 8.000 pazienti, di cui solo 1.600 sono stati trapiantati effettivamente, con un tempo di attesa in lista pari a poco più tre anni. Fortunatamente, anche grazie a questa Associazione, l’attività di trapianto nel corso degli anni è aumentata (e di molto), però abbiamo ancora questo gap che in ambito trapiantologico conosciamo molto bene e che è il gap tra la necessità di fare trapianti, per dare nuova speranza di sopravvivenza ai pazienti, e la scarsità degli organi disponibili per il trapianto. Inevitabilmente la focalizzazione dell’attenzione dei trapiantologi di oggi è quella di colmare questo gap, il che significa cercare di aumentare il numero dei trapianti. In ambito renale, le principali strategie attuali sono cercare di migliorare l’outcome dei reni marginali (reni che non sono propriamente standard), utilizzare donatori sempre più anziani, sicuramente più complessi ma che possono rappresentare una validissima potenzialità per la trapiantologia, sviluppare al meglio la trapiantologia da vivente, con le varie possibilità di trapianto con un gruppo sanguigno incompatibile, ma anche, soprattutto ultimamente, tra coppie incompatibili, utilizzando catene cross-over. Quanto al miglioramento dell’outcome dei reni marginali, il 47% dei donatori sono over 65 e il 4% dei donatori sono a cuore fermo (sperando in un incremento del secondo dato), entrambi con caratteristiche che possono compromettere la funzionalità dell’organo dopo il trapianto. In questi casi, l’utilizzo di macchine di perfusione ex situ può migliorare la prestazione dell’organo, aumentandone la sopravvivenza. Sappiamo tutti che esiste la possibilità del doppio trapianto di rene, una possibilità di oggi ma che affonda le sue radici anche nel passato e riguarda i donatori di età più avanzata o che presentano alcune particolarità (diabete, ipertensione) che rendono più rischiosa la funzionalità renale dopo il trapianto: in questi casi, a seguito di biopsia, i reni vengono scartati, e quindi definiti non idonei, o sono assolutamente perfetti da un punto di vista microscopico, e quindi si procede con un trapianto standard (con i due rerni a due riceventi diversi), oppure si identificano alcune alterazioni croniche microscopiche aumentano il livello di rischio del trapianto, caso in cui, quest’ultimo, il doppio trapianto consente di raddoppiare la massa nefronica, aumentando la possibilità di una sopravvivenza del paziente trapiantato anche con un donatore marginali (e quindi utilizzando tutti e due i reni nello stesso ricevente). Ciò consente di aumentare sostanzialmente il pool di donatori disponibili per il trapianto, anche se il rovescio della medaglia è che il tempo operatorio è un po’ più lungo e quindi anche il tempo anestesiologico e non proprio tutti i riceventi possono usufruire di questa possibilità. Anche nell’algoritmo descritto, Bergamo è molto importante perché il Prof. Remuzzi, ormai nel ’99, studiò uno score utilizzato in tutto il mondo. Ho accennato alla possibilità di trapianto da vivente tra coppie non compatibili: avere incompatibilità di gruppo non è un divieto assoluto a al trapianto da vivente: sappiamo che il 20/30% di coppie hanno un gruppo sanguigno incompatibile e per superare questo problema è necessario un protocollo immunosoppressivo adeguato per il ricevente e per ridurre gli anticorpi contro il gruppo sanguigno del donatore, ma una volta effettuato questo protocollo e arrivati al trapianto, di fatto gli effetti collaterali sono sostanzialmente assimilabili a un trapianto diretto, soprattutto selezionando riceventi in buone condizioni che possono tollerare appieno questo protocollo immunosoppressivo. Un po’ più complessa è l’incompatibilità tissutale, che rappresenta un problema molto importante, soprattutto nei casi di ritrapianto di pazienti immunizzati che sono stati a contatto già con vari organi o trasfusioni e rappresenta il 30 40% della realtà in Italia e in questo ambito i protocolli ci sono ma non sono così tanto efficaci a prevenire il rigetto acuto e cronico, per cui in questo scenario si inserisce il programma di cross-over, di scambio di organi tra coppie che siano compatibili in maniera incrociata. Non è così facile riuscire a trovare due coppie che siano compatibili donatore-ricevente vicendevolmente. Più facile, e anche più efficiente, è provocare una catena di trapianti che parta da un donatore esterno che possa donare a un ricevente di una coppia in cui il donatore non è compatibile e questo donatore, a scalare, va a donare ad un’altra coppia e così via. Questo programma, che è stato esteso e rifinito dal Centro Nazionale Trapianti è il Kidney paired exchange: dal 2010 al 2019 sono stati eseguiti 50 trapianti in modalità cross-over e nello stesso periodo le donazioni samaritane di un donatore esterno che si offre senza avere parenti parenti in necessità di trapianto sono state 8, preziose ma molto scarse, che hanno scatenato 26 trapianti, però da luglio 2019, dopo un primo progetto sperimentale, e partito dall’università di Padova, a livello nazionale si è esteso e propagato anche il kidney paired exchange scatenato da un donatore deceduto con una grossa accelerazione del programma, diventato effettivamente una realtà in Italia, così come in altri Paesi, come America o Inghilterra e inoltre da luglio 2018 fino a quest’anno sono stati eseguiti anche trapianti internazionali quindi con cross-over e con la Spagna. Permettetemi di concludere con un piccolo focus di attenzione sulle prospettive future del trapianto di rene: a volte si sente parlare di organi ricreati in provetta e in laboratorio. Non è del tutto sbagliato, però dobbiamo sempre ricordarci che la materia non si crea dal nulla e gli organi, che magari non sono ottimali e non sono utilizzabili per il trapianto, possono comunque essere utilizzati come matrice, quindi togliendo tutta la parte cellulare – che non è funzionante – e utilizzare questa matrice come scheletro sul quale ripopolare il tessuto e i vari componenti del rene tramite – magari -cellule provenienti dal ricevente. Ciò potrebbe abbattere, o ridurre notevolmente, la necessità di terapia immunosoppressiva e potenzialmente anche ridurre al minimo, o eliminare, il tempo di attesa in dialisi. Grazie per l’attenzione.
Luigi Rainiero Fassati, Prof. Ordinario f.r. di chirurgia – Università degli studi di Milano. Già Direttore Dipartimento di Chirurgia e dei Trapianti Policlinico di Milano. Il trapianto di fegato ieri. Buonasera a tutti. Ringrazio il Comitato organizzatore di questo congresso per la storia meravigliosa di Aido, mi fa estremamente piacere e sono molto contento di essere qui con voi. Vedete, il trapianto di fegato pone l’Italia in una posizione da primato, pensate che per primo al mondo, nel 1952, il professor Vittorio Staudacher, di Milano, presentò al Congresso della Società Italiana di Chirurgia, che si teneva a Venezia, il primo trapianto sperimentale di fegato, allora fatto sul cane. Peraltro, questo intervento veramente eccezionale non fu mai considerato nel mondo, perché era stato pubblicato sugli annali della Società Italiana di Chirurgia, appena citata, e nessuno leggeva l’italiano; solo in seguito, io, con un gruppo di altri colleghi amici siamo riusciti a far valere questa paternità a livello internazionale ed oggi tutta la letteratura attribuisce al Prof. Vittorio Staudacher il primo trapianto sperimentale di fegato. Il pioniere del trapianto di fegato nel mondo è stato il Prof. Thomas Starzl. Dopo un lungo tirocinio sperimentale (nella foto presenta un cane trapiantato nel 1964 che sopravvisse a 5 anni in condizioni perfettamente normali), il professore esegui il primo trapianto clinico a Denver, il 1° maggio del 1963, ma purtroppo non andò bene e il bambino che allora aveva operato morì di emorragia. A seguito di questo episodio, Starzl interruppe la sua attività per poi ripetere un altro trapianto, ma ancora il paziente morì dopo 7 giorni e, così, per quattro anni, rinunciò assolutamente, visti i risultati deludenti. Continuò però a studiare e, finalmente, eseguì il primo trapianto di fegato nel luglio del 1967, dando così l’avvio a tutti i trapianti successivi nel mondo. Anche noi, nel nostro centro trapianti, iniziammo la nostra attività di trapianto di fegato a livello sperimentale. Già nel 1969, presentavamo alla Fondazione Carlo Erba di Milano (allora il trapianto di fegato si chiamava omotrapianto ortotopico di fegato), con il Prof. Galmarini, una casistica di 87 maiali trapiantati (qui in foto – porto un esempio, il maiale più grande è il maiale trapiantato di fegato a un anno di distanza dal trapianto, regolarmente cresciuto, mentre il maiale molto più magro è quello prima del trapianto; questo stava a dimostrare c’era possibilità di effettuare il trapianto, peraltro confesso che si trattava di un esercizio chirurgico tecnicamente molto difficile perché i vasi, le arterie e le vene del maiale sono estremamente delicate). In seguito, andai negli Stati Uniti, a Pittsburgh, e nel 1982/1983 feci il primo trapianto di fegato con il Prof. Starzl, che affiancai per un anno nel lavoro, peraltro in un clima di grande amicizia, complice la finale – vista in sala operatoria – del campionato del mondo Italia-Germania, in cui l’Italia vinse 3 a 1 (foto del 9 giugno del 1983, equipe Prof. Fassati con la Prof.ssa Renzi, il Prof. Rossi, il Prof. Galmarini e il Prof. Ferla). Agli inizi eravamo in pochi e iniziare una nuova chirurgia, una nuova metodica, un nuovo approccio è estremamente difficile e di questo va dato merito al professor Galmarini, il quale si impuntò sull’idea che si doveva organizzare una equipe che lavorasse unita. La diffidenza degli epatologi, dei gastroenterologi, che ci consideravano dei pazzi e che quindi non ci mandavano mai malati, rendeva la situazione estremamente dura. Poi c’era la difficoltà della terapia immunosoppressiva, allora ridotta a ben poche possibilità (solo per fare il dosaggio della ciclosporina nel sangue, dovevamo inviare il sangue dei nostri pazienti, un giorno sì un giorno no, perché di più non si poteva, a Niguarda, perché al Policlinico allora non si effettuava questo esame). Altra difficoltà era poi, ancora, era quella dei donatori, laddove la carenza di un organismo centrale, o quantomeno lombardo, di coordinamento, determinava un disordine assoluto. Fu quindi indispensabile creare un’organizzazione indipendente dai chirurghi che stabilisse l’ordine di necessità con cui si dovevano eseguire i trapianti. Dalla mia lunga esperienza ho tratto alcune riflessioni che ho raccolto in un libro – “Un tempo per guarire” – , dove praticamente ripercorro mezzo secolo di vita tra sala operatoria e insegnamento, mezzo secolo che mi ha insegnato che l’evoluzione della chirurgia generale e dei trapianti è stata veramente un’evoluzione straordinaria ed inaspettata, dovuta al merito, non solo dei chirurghi, ai quali sempre più spesso viene attribuito, ma a tutta la complessa equipe che partecipa a un trapianto. Allora, anche ad Aido io dico grazie per il grandissimo contributo che da cinquant’anni continua a dare a favore dei trapianti, dei donatori dei riceventi e delle loro famiglie.
Domenico Pinelli, Dirigente medico della Chirurgia Terza dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Il trapianto di fegato oggi. Grazie a tutti, grazie al comitato organizzatore, grazie al Prof. Fassati, che ci ha fatto vivere da vicino l’età pionieristica di cui raccogliamo oggi i risultati che andiamo ora a raccontare. Inizio con l’affermare che il trapianto di fegato è un successo dai suoi inizi ad oggi. A Bergamo abbiamo trapiantato, dal 1997 ad oggi, 1.500 pazienti, di cui 650 bambini e più di 900 pazienti adulti. Il successo sta tutto in questo dato: i risultati di sopravvivenza raggiunti a 5 anni e a 10 anni dal trapianto si attestano, nei bambini, al di sopra dell’80%, e negli adulti rasentano il 70% (a 10 anni). Ma il successo dei trapianti non sta solo nel regalare anni di vita a pazienti con patologie importanti, è anche ridare loro una qualità di vita. Ovviamente il trapianto è cambiato rispetto a quello di un tempo. Oggi dobbiamo fare i conti con un processo che avviene per tappe: abbiamo il problema della lista d’attesa, del procurement (approvvigionamento), della conservazione dell’organo, del trapianto, della terapia intensiva e del follow-up. Ovviamente la lista d’attesa rappresenta un problema, perché il trapianto di fegato è un bene che va a pazienti che non hanno altra possibilità di sopravvivenza, come nemmeno la possibilità di mantenersi definitivamente in lista d’attesa, perché non esiste una possibilità come quella della dialisi per il trapianto di rene. C’è poi il problema di scegliere il timing per il trapianto, cioè capire qual sia il momento giusto per poter trapiantare i pazienti e per non arrivare in ritardo rispetto a quelle che sono le necessità del trapianto. Abbiamo poi la necessità di operare dei trattamenti sul paziente, anche durante il periodo di attesa, rivolti a ritardare lo sviluppo dell’epatopatia, a trattare le neoplasie eventualmente poste a causa della necessità del trapianto, a migliorare l’aspetto della nutrizione dei pazienti cirrotrici, come fattore di risultato molto importante, ed infine l’immunità con tutto quanto serve nel momento del trapianto. Il rapporto tra il centro trapianti e la periferia – intesa come Ospedale o intesa come medico di base – deve migliorare, perché troppo spesso ci troviamo a valutare dei pazienti che purtroppo sono stati stati mantenuti alla periferia del centro trapianti per troppo a lungo e non sono arrivati, quindi, in tempo per poter fare un trapianto. Ovviamente l’età dei riceventi è aumentata. Un tempo, oltre i 60/65 anni, era difficile trovare dei pazienti nelle liste trapianti, mentre oggi abbiamo superato questo limite e negli ultimi 10/15 anni abbiamo pazienti trapiantati anche tra i 60 e i 70 anni e addirittura, in alcuni casi, anche oltre i 70 anni. Si sposa, cioè, quel concetto che non è l’età anagrafica ma è l’età biologica che conta. Anche le liste d’attesa sono cambiate rispetto al passato: sicuramente un dato importantissimo è il calo della patologia HCV (grazie ai progressi nei farmaci che hanno abbattuto sia l’incidenza della malattia cronica, sia la progressione della stessa nel paziente – dal 2010 al 2014, i pazienti con HCV all’interno della lista operatoria sono dimezzati), dato molto positivo perché libererà anche delle risorse per altre patologie. Purtroppo c’è ancora la piaga dell’alcol: nelle liste trapianti la patologia alcolica che porta all’insufficienza epatica tende ancora ad essere molto rappresentata, anzi in aumento, e in aumento anche la patologia neoplastica dell’epatocarcinoma. Il carcinoma epatocellulare è una delle principali cause di inserimento in lista d’attesa, ma anche i tumori neuroendocrini metastatici del fegato, il colangiocarcinoma ed anche le metastasi da tumore colorettale. Il trattamento di queste patologie con il trapianto non sempre è possibile ma rimane un’auspicabile valida prospettiva futura. (come da diretta) Anche nel trapianto di fegato c’è una differenza tra il numero dei pazienti in lista d’attesa e il numero dei pazienti trapiantati: in Italia eseguiamo più di 1000 trapianti di fegato all’anno (nell’ultimo anno appena sopra i 1.100, solitamente 1.200/1.300) e la situazione è abbastanza stabile. Questo dato potrebbe essere interpretato come un fattore abbastanza positivo, visto che non si è verificata un’impennata dei pazienti in lista, con conseguenti livelli non colmabili nel rapporto tra “domanda e offerta” di organi. In realtà questo è un dato che forse è falsamente interpretato positivamente, perché spesso il paziente non arriva al centro trapianti, quindi la richiesta da colmare sarà ancora più importante e certamente superiore a quella attuale. (come da diretta) Nel 2020, anno difficile per le Rianimazioni a causa del Covid-19, voglio segnalare 1.182 trapianti e 102 decessi in lista d’attesa, a fronte di un tempo medio in lista di 1,6 anni, che purtroppo è ancora troppo elevato, soprattutto per patologie tumorali. Partiamo da questi dati per capire cosa possiamo fare per aumentare gli organi. (come da diretta) Tutta l’attività di trapianto di fegato si fonda ancora sulla nozione di morte cerebrale. Sicuramente, come si diceva prima, la prospettiva può essere aumentare i prelievi da donatore a cuore non battente (DCD) e sfruttare le possibilità di donatore da vivente, ove però, a mio parere, c’è anche un discorso culturale ancora tutto da affrontare nella nostra nazione. Per quanto riguarda la soluzione del problema del procurement, possiamo mettere in campo diverse strategie, dallo split liver, per cui un organo può soddisfare le necessità di due riceventi – un adulto e un bambino oppure due adulti, alla donazione da vivente, fino all’utilizzo del donatore marginale, cercando di studiare meglio i fattori di rischio (es. età superiore ai 70 anni, che oggi è la quotidianità) del donatore per definire un profilo di rischio accettabile. Quanto alle risposte per la migliore conservazione degli organi, vanno trovate nella perfusione e nel ricondiziomento. Per il problema del trapianto, esso è un intervento complesso che si compone di quattro fasi: anastomasi della vena cava, anastomasi della vena porta, anastomasi arteriosa e anastomasi biliare. Una grande verità, ed insieme una regola della medicina e della chirurgia, (dimostrata dallo studio mostrato in diretta) è che “più si fanno le cose, più si fanno bene”. Il nostro centro trapianti, con 30 bambini trapiantati nell’ultimo anno, si colloca nella fascia alta di attività. Ci sono poi patologie che portano al trapianto combinato (es. fegato-pancreas per epatopatia terminale collegata ad un diabete insulino dipendente, fegato-rene per il paziente dializzato, fegato-intestino per insufficienza epatica secondaria a nutrizione parenterale prolungata, fegato-polmone per fibrosi cistica), che è una sfida difficile con cui i centri trapianti devono fare i conti ogni giorno. Infine, il tema terapia intensiva e follow-up fa i conti con l’immunosoppressione, con gli effetti collaterali dei farmaci, con le infezioni e le neoplasie e con la transizione, per i pazienti pediatrici, dall’infanzia all’adolescenza. Esistono poi i casi che non hanno un lieto fine (come mostrato in diretta – mortalità e ritrapianto): il primo mese dal trapianto è il più a rischio e si può perdere l’organo a causa di infezioni, trombosi o forme di mancata ripresa dell’organo, quindi è un periodo in cui il paziente va seguito con particolare attenzione. In questo Ospedale il trapianto di fegato è preso in gestione in tre reparti: la gastroenterologia, la chirurgia e la terapia intensiva, ma le specializzazioni coinvolte sono talmente tante da poter dire che tutto l’Ospedale (volontariato compreso) ruota attorno al paziente, pur non avendolo in gestione direttamente. (in diretta viene mostrata diapositiva organico con una quota rosa aumentata che fa centrare l’obiettivo).
Domande
Paolo Ferrazzi, Direttore del Centro per la cardiomiopatia ipertrofica del Policlinico di Monza e Primario emerito ed ex direttore del Dipartimento cardiovascolare dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII. Il trapianto di cuore ieri. Grazie, è un piacere e un onore trovarmi qui in quest’aula intestata al professor Parenzan a parlare con l’Aido, che è stato un caposaldo per l’inizio dei trapianti a Bergamo. Come abbiamo sentito anche dai precedenti oratori, c’è stato un grande cuore nell’iniziare i trapianti a Bergamo e devo ricordare queste due persone (foto), il Prof. Parenzan e il Dott. Kirklin, ai quali, fra l’altro, è intestata la Scuola Internazionale di Cardiochirurgia, che ho l’onore di dirigere e che ancora è molto presente dando anch’essa un enorme contributo alla scienza e alla conoscenza nel mondo, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Nel 1985, prima del trapianto di cuore, che ha aperto un grande ciclo di trapianti all’Ospedale di Bergamo, avevamo una sensazione di vivere un momento storico. Era un periodo in cui sentivamo che il trapianto era da introdurre e abbiamo avuto grande fortuna perché è stato introdotto in un momento in cui venivano messi a punto tutti i farmaci, in particolare la ciclosporina. In quel periodo riservavamo questo intervento, visti i rischi iniziali, ai malati in fase terminale e vi era grande preoccupazione per il rigetto, per le infezioni, per il danno renale dovuto alla ciclosporina, in cui i dosaggi non erano ancora appunto in quel periodo. Non esisteva l’ecocardiografia, ad oggi basilare, e la diagnosi veniva fatta con la biopsia miocardica. La terapia era basata su un farmaco entrato in commercio da qualche anno – la ciclosporina, come detto – ma che veniva somministrato con dosi probabilmente troppo alte, per cui molto spesso il paziente sviluppava un’insufficienza renale post operatoria che era molto difficile e portava spesso a infezioni. Avevamo quindi molte certezze ma anche molti dubbi. Il programma trapianti di cuore in Italia è stato un programma di grande successo fin dall’inizio, ben coordinato, con partenza limitata a pochi centri (7 centri, tra cui Bergamo) che da subito divennero operativi, consentendo di effettuare da subito un certo un grosso numero di trapianti, con l’aiuto del NITp, ma anche di tutte le associazioni di volontariato da cui l’Aido. 23 novembre 1985, una data storica, la data in cui fu eseguito il primo trapianto di cuore all’Ospedale di Bergamo. Avevamo una serie di riceventi in ospedale, quando individuammo il primo donatore. Il ricevente di gruppo zero aveva una malattia in fase terminale però con paziente ancora stabile. Due giorni prima dell’arrivo del donatore, entrò in Ospedale un paziente in edema polmonare in grave scompenso. Alla fine riuscii a convincere il professor Parenzan che dovevamo trapiantare prima il paziente più grave, che era in imminente pericolo di vita. Forse fu una follia, ma la fortuna aiuta gli audaci e così il trapianto riuscì molto bene, nonostante si trattasse di un re intervento, quindi di un caso che sarebbe difficile tutt’oggi, e nonostante la tutta la pressione mediatica cui fummo sottoposti (operammo di notte con circa 150 testate giornalistiche fuori dalla sala operatoria) dalla quale riuscimmo ad astrarci completamente. Quando, asportato il cuore dilatato del ricevente, pronti a riempire la cavità pericardica completamente vuota con il cuore del donatore, l’emozione nel vedere qualcosa di nuovo che riprendeva a battere fu fortissima anche per noi chirurghi. La storia è significativa ed anche divertente, perché, dopo due giorni dal primo trapianto, era un sabato sera, fui invitato da un gruppo di amici a festeggiare la buona riuscita del primo trapianto quando ricevetti una telefonata dal NITp, alle 02:00 am, che c’era un altro donatore per un altro ricevente, quindi avendo appena scalato l’Everest, dovemmo rincominciare, facendo immediatamente il secondo trapianto con ottimo esito.
Il Prof. Parenzan dichiarava la sua emozione nel vedere come persone che stavano così male, nel giro di poco tempo riprendessero una vita normale. 2)l’equipe del Prof. Parenzan festeggiava un paziente trapiantato che partecipava alla maratona di New York del 1987). A parte tutta la ribalta mediatica, la cosa davvero importante furono i risvolti clinici del trapianto cardiaco: Bergamo iniziò subito la parte pediatrica, presentando i migliori risultati al mondo del trapianto cardiaco pediatrico a Pittsburgh. Forti degli ottimi risultati raggiunti, man mano che andavamo avanti, avevamo più certezze che dubbi, e soprattutto imparammo in quel momento una cosa importantissima che ci fu utile per tutto il resto della nostra carriera: a personalizzare il rapporto con il paziente. Pensiamo che il trapianto, dal punto di vista clinico, dia un grandissimo beneficio a tantissimi pazienti: non possiamo calcolarli, ma penso che sia enorme il numero di pazienti la cui cura è migliorata grazie al trapianto. Da questa esperienza, infatti, fin dall’inizio, ci trovavamo dentro il vecchio ospedale a curare i malati in un’unica squadra, per cercare di migliorare e di traslare le conoscenze da un reparto all’altro: questo è stato secondo me il più grande vantaggio, che ha avuto una ricaduta enorme in tutto l’ospedale, perché tutti hanno cercato di supportare al massimo il programma trapianti, ricevendo in cambio che tutti i pazienti ricoverati, nei diversi reparti e per le patologie più varie, usufruissero di questo sensibile aumento e traslazione di conoscenze. Un altro problema grosso, ma che racchiude un grande insegnamento, è abituarsi a lavorare non per il bene del singolo malato ma per il bene della comunità (ad esempio ad un paziente molto grave di tra i sessanta e i settant’anni non possiamo destinare un cuore di un ragazzo di vent’anni, che va riservato a una persona più giovane). Questa cascata portò un enorme miglioramento nella cardiochirurgia di Bergamo (come da diretta) che, dal novembre 1985 al novembre 2005, conseguì importanti risultati (nel 1985, il prelievo multi-organo; nel 1987, l’assistenza ventricolare meccanica di 43 gg, la più lunga al mondo; nel 1988, l’assistenza ventricolare pediatrica; nel 1989 la sopravvivenza con cuore artificiale totale, in collaborazione con la Svizzera; nel 1991 il trapianto cuore-polmoni – ricordo del Dott. Gamba; nel 1994, il trapianto eterotropico). Sicuramente i trapianti cardiaci hanno stimolato anche la ricerca, probabilmente avremmo potuto fare di più nella ricerca delle malattie che portano al trapianto. Chiuderei questa relazione con una frase della Prof.ssa Rita Levi Montalcini che riassume il rigore per il paziente e l’umanità con il paziente: “Rare sono le persone che usano la mente. Pochi coloro che usano il cuore. E uniche coloro che usano entrambi”. Ringrazio tutti per quello che è stato fatto, ma in particolare per quello che ancora si farà, in favore dei pazienti.
Amedeo Terzi, Responsabile della Chirurgia dei Trapianti di Cuore dell’ASST Papa Giovanni XXIII. Il trapianto di cuore oggi. Buongiorno a tutti, innanzitutto i ringraziamenti al Cav. Pozzi, al Dott. Valli, ad AIDO tutta, perché con questo convegno ci permette di far conoscere cosa facciamo, come lo facciamo e quali risultati abbiamo. Il secondo ringraziamento va al Dott. Ferrazzi, perché con il supporto del professor Parenzan, nel 1985, iniziò questa attività, portata poi avanti dal dottor Gamba e arrivata, infine, ai giorni d’oggi. Un’attività importante, estremamente impegnativa ma ricca di soddisfazioni. Per parlare del trapianto oggi non possiamo non considerare quali sono i cambiamenti epidemiologici che stanno coinvolgendo i pazienti cardiopatici che arrivano allo scompenso terminale e necessitano di un trapianto. (come da diretta) La cosa più evidente, che vediamo in una diapositiva prodotta dalla Società Internazionale dei Trapianti di Cuore-Polmone, è che l’età del paziente che accede al trapianto sta aumentando: se nel 1988 avevamo un 10% di pazienti tra i 60 e i 70 anni, al giorno d’oggi i pazienti in lista in questa fascia d’età arrivano quasi al 30%. Ciò significa che abbiamo a che fare con malati che sono più complicati, perché più anziani. Perché aumenta l’età del ricevente? Per il progresso nella terapia medica – farmacologica e non farmacologica – dello scompenso cardiaco, grazie all’angioplastica primaria per IMA e per il progresso nella terapia intensiva cardiologica con l’uso di sistemi di assistenza circolatoria a breve termine. In tutta Europa, negli ultimi anni, sta via via aumentando l’età media dei donatori, dai 25/26 anni degli inizi della nostra attività, ai 45 anni di oggi. Perché aumenta l’età dei donatori? Perché ci sono meno pazienti deceduti per trauma, mentre abbiamo più pazienti deceduti per accidenti cereblo-vascolari maggiori. Il primo assunto è l’effetto di una maggiore informazione, di una sensibilizzazione, dell’obbligatorietà del casco, ma anche dell’evoluzione della neurochirurgia, capace di far sopravvivere più pazienti, e della costituzione di trauma team, che accolgono il paziente politraumatizzato e lo gestiscono in maniera coordinata tra le varie specialità. Il secondo assunto conduce a pazienti tendenzialmente più anziani, con problemi vascolari e che possono avere altre patologie d’organo. La situazione è ben rappresentata dai dati prodotti dal CNT, dove si vede fondamentalmente che, nella lista di attesa per il cuore, si mantiene costante il numero dei pazienti che vengono inseriti in lista nel corso degli anni – dal 2002 al 2020 – mentre se si guarda l’andamento del numero di trapianti, ci si rende conto come negli ultimi anni siamo arrivati a perdere più del 30% dei donatori utili e tutto ciò si ripercuote nel dato drammatico del tempo medio attuale di attesa del paziente, pari a 3 anni e 7 mesi, se un adulto, e a 3 anni e 3 mesi, se un bambino. Cosa possiamo fare in questa situazione? Il trapianto oggi non può non tener conto dell’evoluzione tecnologica, la più grande quella del cuore artificiale. L’idea di poter sostituire l’organo biologico con un cuore meccanico è sempre stata un po’ la chimera di tutti i ricercatori e da tantissimi anni si sta cercando di trovare l’organo giusto che possa sostituire l’organo biologico. Però le prime esperienze (come da diretta) richiedevano macchinari importanti molto complessi da un punto di vista meccanico, che dovevano poi fare i conti con una biologia estremamente delicata, quale quella di un organismo umano, con una fisiologia di un cuore che non è sicuramente facile da gestire. Quindi, l’idea iniziale di andare sostituire completamente il cuore, è stata via via sostituita dall’idea di un’assistenza meccanica al circolo, che consiste non nel togliere il cuore malato e sostituirlo con una macchina, ma nell’appoggiare una macchina al cuore malato, che possa supportare il ventricolo che non lavora. I primi tentativi su questo aspetto furono fatti con macchine che ancora cercavano di imitare il ciclo cardiaco, con flusso pulsatile, che però avevano l’inconveniente di essere estremamente grosse, avere ancora tante parti in movimento e tante parti meccaniche che potevano rendere difficile la compatibilità biologica. Un grande passo in avanti fu fatto quando si capì che il supporto al circolo poteva essere anche dato non con un flusso pulsatile come quello di un cuore che lavora normalmente, ma con un flusso continuo, e da lì cominciarono a sviluppare delle micro pompe, che con un flusso assiale, dessero un’accelerazione al sangue che prelevavano dal ventricolo sinistro e lo mandassero in aorta. Anche queste pompe, però, avevano dei difetti, soprattutto la presenza di molte parti rotanti necessitanti di cuscinetti, che non poteva garantire una compatibilità biologica efficace. Fino ad arrivare ai giorni d’oggi, dove invece la tecnologia è riuscita a produrre in questo momento una macchina per l’assistenza ventricolare sinistra, che funziona in maniera molto buona, tanto che in questo momento la stiamo usando proprio per supportare quei pazienti che non riescono ad avere il tempo per avere un cuore buono o addirittura per dei pazienti che non possono essere candidati a trapianto e che la usano come una soluzione definitiva che permette di guadagnare anni di vita con buona qualità di vita. Questo nuovo sistema consiste fondamentalmente di una pompa, che viene inserita all’interno del torace nel pericardio, e che lavora ruotando spinta da campi magnetici e aspira il sangue. Dal ventricolo sinistro viene accelerato dalla pompa e viene poi immesso in un tubo di outflow, che viene attaccato alla vita, in questo modo andiamo a sostituire un ventricolo sinistro che non è più in grado di produrre una forza sufficiente per far fluire il sangue in tutto l’organismo e lo sostituiamo con una macchina che deve essere comunque controllata e alimentata dall’esterno, quindi il paziente avrà un cavo elettrico (driveline) che uscirà dal suo addome e lo collegherà a un computer e alle batterie. Per il paziente, la pompa è dentro il torace, quindi tutta chiusa e invisibile, a parte il cavo che esce dall’addome, collegandosi al controller e alle batterie. La funzione di questa macchina è duplice: permettere al paziente di recuperare una buona qualità di vita in attesa di un trapianto e, per i pazienti più gravi, quella di cercare in qualche modo di ottimizzare la situazione generale del paziente fino al trapianto. Il sistema di assistenza ventricolare meccanica riservata ai bambini è più invasivo: purtroppo i bambini hanno una cavità toracica dove la pompa vista prima, per quanto piccola, non può starci e quindi la soluzione adottata è quella di portare i ventricoli all’esterno dell’organismo e di connetterli solamente attraverso delle canule alle cavità cardiache, ventricoli artificiali che spingono il sangue dal ventricolo sinistro verso la verso l’aorta e dall’atrio destro verso l’arteria polmonare e che vanno a sostituire completamente la funzione. Il sistema deve essere poi attaccato ad una macchina abbastanza ingombrante, quindi i pazienti pediatrici non possono essere dimessi dall’ospedale, però, vivendo in ospedale, si riesce ad avere il tempo di trovare un organo adatto per il bambino. Il problema è ancora più evidente che per l’adulto, perché per fortuna non ci sono tante donazioni pediatriche e la compatibilità può fare aspettare il paziente tanto tempo. Da ultimo, l’idea ambiziosa di poter sostituire il cuore, per cui si torna indietro alle prime esperienze: esempi sono il tradizionale Syncardia TAH, estremamente ingombrante, complicato e rumoroso, e il Carmat TAH, di ultimo sviluppo, ancora agli inizi ma che sembra dare dei risultati promettenti per la sua biocompatibilità (è completamente rivestito di materiale biologico). E se da una parte l’impegno è curare il paziente che sta male, dall’altro lato il lavoro è sull’aumento del reperimento di organi. Abbiamo parlato prima dei sistemi di perfusione ex-vivo in vitro, oggi si sta approntando un sistema che probabilmente nei prossimi anni ci aiuterà a recuperare quei donatori marginali che attualmente non possiamo utilizzare perché il cuore è troppo sofferente o perché sono localizzati troppo lontano per cui il tempo di ischemia può diventare troppo lungo: è un sistema dalle buone premesse, perché ci consentirà di vedere se l’organo ritenuto non idoneo, dopo aver passato qualche ora dentro questo sistema di perfusione artificiale, recupera un po’ della sua capacità contrattile e si possa decidere di utilizzarlo. Concludiamo con qualche dato sulla nostra attività: dal novembre 1985 al novembre 2021, 1020 trapianti, di cui 150 pediatrici. In questa casistica, 27 trapianti di rene in seguito al trapianto cardiaco (per i danni da terapia immunosoppressiva), 29 re-trapianti di cuore, e 37 pazienti portatori di VAD. L’andamento annuale dei trapianti rispecchia i dati del CNT: un grosso entusiasmo dagli anni ‘80/’90 fino al 2000 e poi un lento declino. Tuttavia, alla diminuzione dei trapianti cardiaci, abbiamo fatto fronte con l’aumento dei pazienti trattati con cuore artificiale, mantenendo costante il numero dei pazienti che possiamo trapiantare. L’altro lavoro grosso che facciamo è quello di cercare di ottimizzare i risultati di questi cuori: abbiamo pochi cuori a disposizione, sappiamo che sono una risorsa estremamente preziosa, per cui cerchiamo di sfruttarla al meglio, operando un’accurata selezione dei pazienti e usando un’attenzione anche maniacale sugli stessi, riuscendo a registrare dati di sopravvivenza che non sono assolutamente cattivi. Altro aspetto legato ai trapianti di oggi sono i re-trapianti: noi abbiamo un centro che ha trapiantato 154 bambini, il che vuol dire che questi bambini arrivano all’età adulta con un cuore che probabilmente inizia a non funzionare più perché il cuore, purtroppo, non è un organo che si mantiene per sempre. La terapia immunosoppressiva è efficace, però l’organo viene pian piano comunque eroso dal sistema immunitario e nel lungo tempo il cuore trapiantato va incontro ad una forma di degenerazione chiamata rigetto cronico che porta al re-trapianto. Cristina Zambonini, fondatrice dell’associazione Cuori 3.0, da poco insignita del titolo di Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica, è una ventenne che nel 2006 è stato trapiantata una prima volta e nel 2017, a seguito di un rigetto cronico, è stata trapiantata una seconda volta, diventando da allora un testimonial fantastico per l’attività di trapianto e di donazione. Ultimo argomento, i trapianti combinati: anche questo ambito è legato fondamentalmente alla cardiochirurgia pediatrica, quindi tanti bambini con delle patologie cardiache complesse sono stati curati ma adesso arrivano ad uno stato di ad uno stadio di scompenso che non può più essere trattato, però questo scompenso in questi anni si è portato dietro la malattia di altri organi, primi fra tutti il fegato e il rene. Il Gold standard per lo scompenso cardiaco terminale resta il trapianto ma la difficoltà di reperire organi per tutti è evidente, quindi grazie ad associazioni come Aido, che con la sensibilizzazione alla promozione di una cultura alla donazione, resta una risorsa preziosa a cui noi operatori dobbiamo essere grati. Concludo: ho cominciato con i ringraziamenti e finisco con i ringraziamenti, perché penso che un’attività così impegnativa non possa essere svolta da poche persone ma debba essere svolta da un team completo, un team che considera le varie specialità, un team fatto da cardiologi da cardiochirurghi ed anestesisti, da rianimatori, da infermieri, da tecnici di perfusione. Grazie, quindi, alla grande squadra dei trapianti.
Mario Nosotti, Professore Ordinario e Direttore della Scuola di Chirurgia Toracica dell’Università degli Studi di Milano, Direttore della Chirurgia Toracica e dei Trapianti di Polmone della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Il trapianto di polmone nella storia, ieri e oggi. Ringrazio l’associazione per l’invito molto apprezzato e che mi ha consentito di ritrovare il mio vecchio primario, il Prof. Fassati, e altri stimati colleghi, come la Prof.ssa Berardinelli. Inizio con una foto di Milano degli anni ’50, infatti nel 1950 professor Vittorio Staudacher fece il primo trapianto di lobo polmonare in un cane, preceduto in realtà, pochi anni prima, da un chirurgo russo, Vladimir Demikhov, che fece il primo trapianto, sempre lobare, di polmone in un cane (era un chirurgo un po’ sopra le righe – foto di un cane con due teste). Mentre i trapianti di fegato, di cuore e (soprattutto) di rene prendevano un avvio molto importante, i trapianti di polmone stentavano un po’ a partire. Dopo un lungo periodo sperimentale, il primo trapianto di polmone avvenne nel 1963, per la precisione nell’aprile del ’63, quando, presso il Mississippi Medical Center, venne ricoverato un ergastolano di 58 anni, ossigeno-dipendente, che aveva delle problematiche ricorrenti nel polmone di sinistra e il chirurgo toracico di allora, James Hardy, che da tempo studiava nel cane il trapianto di polmone, fatta una broncoscopia, che rivelava una vegetazione del bronco principale, e un esame istologico, che mostrava un tumore squamoso, pensò che fosse il paziente ideale per fare il primo trapianto. e infatti dopo poche settimane arrivò al Medical Center un paziente con infarto miocardico ed edema polmonare che, deceduto, divenne il primo donatore per il primo trapianto di polmoni nell’uomo. Alle ore 08:30 del 12 del 1963, iniziò il primo trapianto di polmone nell’uomo. L’intervento fu drammatico – e lo sarebbe anche oggi – perché il tumore era molto invasivo e il paziente era pieno di ascessi polmonari, comunque Hardy riuscì a togliere il polmone malato e a mettere il polmone del donatore e l’intervento si concluse felicemente con una buona saturazione del paziente che, sfortunatamente, però, dopo 18 giorni morì per insufficienza renale e complicanze varie. Hardy la prese molto male, fu molto colpito da questo insuccesso che fermò i trapianti polmonari in tutto il mondo per un po’ di tempo. In realtà aveva fatto un intervento veramente eccezionale e lo possiamo capire solo adesso, veramente tanti anni dopo. In vent’anni i trapianti di polmone non riuscirono a partire: dal 1963 al 1983 se ne fecero 41 e tutti i pazienti decedevano di solito verso la seconda/terza settimana dopo l’intervento per una deiscenza dell’anastomosi bronchiale (il bronco non stava attaccato) e una gravissima infezione che causava la morte. Studiò la questione un chirurgo americano che lavorava a Toronto, il Dott. Cooper, che riuscì a capire che il problema stava essenzialmente nel fatto che si davano delle quantità troppo elevate di cortisone che non permettevano al bronco di guarire e ai punti di reggere. Era però questo il periodo in cui nasceva la ciclosporina, e quindi le cose non avvengono mai per caso, e nel 1983 Cooper fece il primo trapianto di polmone, con una sopravvivenza significativa (foto Cooper con il suo aiuto Patterson e le prime due pazienti trapiantate). In Italia, nel 1983, al Policlinico di Milano, Vittorio Staudacher fece il primo trapianto di cuore e polmoni in una puerpera con grave insufficienza respiratoria post partum ma l’intervento si concluse non felicemente. Questo comportò uno stop da parte del Ministero dei trapianti di polmoni in Italia e, ottenendo una deroga, solo nel 1990, Costante Ricci eseguì a Roma un trapianto con sopravvivenza di alcune settimane, seguito nel 1991 da Giuseppe Pezzuoli, che eseguì al Policlinico di Milano il primo trapianto di polmone con sopravvivenza significativa. Da questa data i trapianti di polmone presero finalmente il via e proseguirono in tutti i centri italiani. In pensione Pezzuoli, al Policlinico di Milano subentrò l’équipe del Prof. Nosotti (foto Prof. Nosotti, Prof. Santambrogio, Prof. Rosso e la signora che nel 1997 fece il primo trapianto con la nuova equipe). I trapianti di polmone in Italia sono molto diversi rispetto a quelli degli altri organi: nel 2019, l’ultimo anno su cui si può fare un certo affidamento, se ne sono fatti 153, il che significa un rapporto di 2,4 trapianti per mln di abitanti, posizionando l’Italia in basso nella media Europea. C’è dunque ancora molto lavoro da fare per far comprendere che il trapianto di polmone è una soluzione terapeutica per i pazienti insufficienti respiratori. Sempre nel 2019, la lista d’attesa contava un’iscrizione di circa 500 pazienti, dei quali, come abbiamo visto, 150 sono stati trapiantati, con un soddisfacimento, quindi, di poco superiore a un quarto dei pazienti nella lista standard. L’attesa è intorno ai due anni e mezzo, nella lista di urgenza è intorno ai tre mesi, mentre nella lista pediatrica purtroppo è un po’ più alta, sempre perché i donatori pediatrici sono rari. Ultime novità in merito ai trapianti di polmone: nel 2010 viene introdotta la lista d’emergenza nazionale, quindi i pazienti che rivestono particolari caratteristiche vengono inseriti in una lista di emergenza nazionale e ricevono il primo organo donato in tutto il territorio nazionale: sono pazienti in assistenza respiratoria meccanica e in età relativamente giovane, che vedo con soddisfazione passare da una situazione terminale a riprendere una vita normale, insomma una cosa che colpisce molto sia i pazienti che i chirurghi. Nel 2016 viene introdotto in Lombardia (ma presto si diffonderà in tutta Italia) il Lung Allocation Score (LUS), il sistema di allocazione, nato negli USA nel 2005, non lasciato alla scelta del singolo centro, ma fondato su un punteggio che viene dato al singolo paziente in base a caratteristiche cliniche, garantendo trasparenza ed equità di allocazione di una sostanza rara. Nel 2011 si esegue il primo trapianto polmonare con un organo rivalutato con EVLP, Ex Vivo Lung Perfusion, il ricondizionamento polmonare nato in Svezia, sviluppato in Canada, poi perfezionato in Policlicnco. Nel 2014 inizia l’avventura dei donatori a cuore non battente (DCD), che rappresenta un po’ un ritorno alle origini, perché i primi trapianti erano da donatore a cuore non battente, poi con i protocolli per la morte cerebrale sono diventati tutti praticamente donatori in morte cerebrale, invece il donatore a cuore non battente è un po’ una nicchia particolare che cercheremo di sviluppare di più e che richiede una grande organizzazione grande sul territorio da parte degli ospedali periferici e del centro trapianti, soprattutto per quanto concerne il donatore non controllato (una persona qualunque che ha un arresto cardiaco, viene prelevato dall’ambulanza, portato di corsa in ospedale, rianimato, e se la rianimazione non ha successo, può essere considerato un donatore), una situazione molto particolare perché di questo paziente che diventa donatore non conosciamo niente e nel giro di pochissimo tempo – meno di tre ore – abbiamo bisogno di conoscere tutto per poterlo considerare un donatore. Paradossalmente il DCD è più facile da accettare per i parenti (la morte cerebrale è emotivamente più dura) ma, dal punto di vista tecnico, è più complesso. In questi ultimissimi anni, soprattutto sui donatori DCD controllati, cioè dove l’evento avviene all’interno dell’ospedale, abbiamo cercato di congiungerci con l’equipe addominale, in modo da far sì che questo donatore sia un donatore sia di fegato che di polmone e questo è un naturalmente un grosso stimolo ad avere sempre più organi a disposizione. Nel 2020, infine, eseguiamo il primo trapianto di polmoni su un ragazzo con insufficienza respiratoria acuta da Covid-19. Grazie.
Carlo Socci, Direttore della Chirurgia dei Trapianti e Metabolico-Bariatrica dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Il trapianto di pancreas nella storia, ieri e oggi. Buonasera a tutti, grazie per l’invito di questo bellissimo pomeriggio, un momento importante in cui sostanzialmente emerge il grosso lavoro non solo dei clinici ma anche organizzativo del NITp. Venendo al nostro tema, il trapianto di pancreas va a coprire una patologia che fino agli inizi del ‘900 era una patologia mortale, il diabete di tipo primo, il diabete giovanile, che provocava la morte del bambino che ne era affetto nel giro di pochi giorni. Non si sapeva perché c’era il diabete, però i ricercatori avevano già puntato l’attenzione sul pancreas, intuendone qualche ruolo sul diabete, e già alla fine del 1800 alcuni chirurghi trapiantavano frammenti di pancreas di pecora o di uomo senza avere grossi risultati, fino ad arrivare al 1921 quando Banting e Best, uno dei due era uno studente che stava facendo la tesi di laurea, individuarono nel pancreas una sostanza – l’insulina – che, se somministrata ai pazienti con diabete, che è una malattia acuta, faceva sopravvivere i pazienti. Da quel momento in poi la malattia non era più mortale, nel senso il paziente non andava incontro a morte in pochi giorni, però, risolto un problema, se ne aprirono degli altri: dopo 35 anni di malattia, il paziente diabetico ha un aumento del rischio di morte del 50% rispetto a un paziente che non è diabetico, perché l’insulina riesce a curare l’evento acuto ma non gli eventi cronici del diabete, che si riflette su tutti gli apparati dell’organismo, in particolar modo fegato e rene, infatti la maggior parte dei pazienti oggi in dialisi deve affrontare questa terapia a causa del diabete. Tra i pazienti in dialisi, i pazienti in dialisi per rene policistico hanno una sopravvivenza a 10 anni del 42%. Se però il paziente in dialisi è affetto da diabete, la sopravvivenza a 5 anni è già del 29%, quindi ci trovavamo di fronte a una malattia sostanzialmente ancora mortale. Il diabete produce insufficienza renale e il paziente diabetico in dialisi va incontro a morte entro poco tempo. Pensando a come si potesse ovviare a questa situazione, fu elaborata una strategia di trapianto di sostituzione della funzione betacellulare del pancreas con il trapianto di pancreas. Correva l’anno 1985 e, al San Raffaele, il Prof. Pozza e il Prof. Di Carlo eseguirono il primo trapianto di rene – pancreas in un collega, poi sopravvissuto per alcune decine di anni. Da allora il programma si è sviluppato, ha coinvolto numerosi pazienti e numerosi specialisti dell’ospedale, per arrivare a una casistica di circa 1400 trapianti al San Raffaele. (come da diretta si trasmette diapositiva tratta dal Registro internazionale dei trapianti) Fino agli anni ‘80/’85, il trapianto di pancreas era un evento aneddotico, perché c’erano delle difficoltà tecniche nel fare accettare al ricevente il trapianto di pancreas. Nel ‘80/’85 finalmente si sviluppò, grazie all’introduzione della ciclosporina, che aveva consentito di ottenere un’efficacia di immunosoppressione senza utilizzare alte dosi di cortisone. Risultati finali: a fronte di una probabilità di sopravvivenza del paziente in dialisi diabetico di circa l’11% dopo 5 anni, il paziente trapiantato di rene e pancreas a 5 anni dal trapianto ha una sopravvivenza superiore al 90%, quindi da questo punto di vista il trapianto deve essere considerato un’attività salvavita, dati gli effetti appena detti sulla sopravvivenza del paziente. Nel tempo si è evoluta la tecnica di trapianto: nel 1966, il primo trapianto effettuato da Lilehei prevedeva il trapianto di tutto il pancreas e l’impianto del duodeno, ma il livello di steroidi usati impediva alle cuciture di guarire, e quindi si avevano dei gravi danni che portavano alla morte del paziente. La tecnica si è evoluta nel tempo, inizialmente era stato trapiantato soltanto un corpo coda del pancreas, dopodiché il pancreas intero con il duodeno ma con il problema della presenza degli enzimi digestivi, che digeriscono gli alimenti ma anche i tessuti con cui vengono a contatto, e si era progettato che il duodeno venisse attaccato alla vescica in modo tale da convogliare tutti gli enzimi digestivi dalla vescica nelle vie urinarie perché non producessero danni, ma poi emersero vari problemi: la presenza di enzimi digestivi nell’apparato urinario produceva molti danni e, quando succedevano queste complicanze urologiche, bisognava staccare il duodeno dalla vescica e attaccarlo poi all’intestino, fino a che abbiamo capito che potevamo ritornare alla descrizione originale del primo trapianto di rene – pancreas. I cosiddetti trapianti con diversione enterica della secrezione esocrina sono quelli che permettono di ottenere una maggiore sopravvivenza. Una particolarità tecnica è che la secrezione dell’insulina può essere iniettata nel circolo sistemico del ricevente oppure, com’è più fisiologico, nel circolo portale che porta direttamente l’insulina nel fegato. Un’evoluzione del trapianto di pancreas è stata il trapianto di isole, motivato dal fatto che al paziente diabetico interessa soltanto la secrezione insulinica e l’insulina viene prodotta dalle betacellule del pancreas, che sono circa l’1% di tutto il pancreas, e quindi nacque tutta una branca della ricerca rivolta a cercare di isolare dal pancreas soltanto le cellule che interessano al paziente diabetico: le isole pancreatiche. Solo nel 1988, insieme con il dottor Ricordi, sviluppammo il metodo automatico per l’isolamento di isole, che ci permetteva di ottenere in breve tempo un grosso numero di isole pancratiche umane. Il metodo consisteva nel prendere il pancreas, iniettarvi un enzima digestivo, il quale veniva messo in una camera di digestione, creando un flusso in questa camera, e, a mano a mano che si liberavano frammenti di tessuto e di isole pancreatiche venivano raccolte le isole e separate dal tessuto e poi trapiantate in via sperimentale nel topo (che era reso diabetico e, ricevendo circa 300 isole, tornava normale). Andando a vedere il contenuto, dal punto di vista istologico, delle isole trapiantate, queste erano assolutamente normali, dunque eravamo pronti e nel 1990 partimmo con il trapianto nell’uomo. Il trapianto di isole pancreatiche consiste sostanzialmente in una semplice iniezione di 1 millilitro di cellule, che viene fatta in angiografia in anestesia locale, incanulando la vena porta del ricevente. Subito partrirono sperimentazioni in diversi centri al mondo, compreso il San Raffaele, e nel 1991 ottenimmo la prima insulino-indipendenza con isole isolate da un solo pancreas, cioè il paziente trapiantato con cellule pancreatiche smetteva di assumere insulina. Abbiamo così dimostrato che il trapianto di sole cellule pancreatiche poteva funzionare. Il problema che ci troviamo ad affrontare oggi è che inizialmente il sistema funziona nella stragrande maggioranza dei pazienti ma, entro breve tempo, la soluzione insulare diminuisce e il paziente molto probabilmente deve riprendere alcune unità di insulina, però rimane sempre, dal punto di vista metabolico, compensato. Dal punto di vista della ricerca, si tratterà di focalizzare gli sforzi per cercare di capire e far funzionare di più nel tempo questo tipo di approccio. Grazie.
Michele Colledan, Direttore del Dipartimento funzionale Insufficienza di organi e Trapianto dell’ASST papa Giovanni XXIII e Professore di Chirurgia all’Università di Milano Bicocca. Il trapianto di intestino nella storia, ieri e oggi. Buonasera a tutti grazie a Cav. Pozzi, a tutti gli amici dell’Aido per questo invito e per aver voluto organizzare questa celebrazione proprio all’interno del nostro ospedale. Vi parlo di trapianto di intestino, che è la “Cenerentola dei trapianti d’organo solido”, sicuramente sia per i numeri che per i risultati che sono i meno entusiasmanti che si possono avere nel panorama dei trapianti. I trapianti in generale si eseguono a causa dell’insufficienza di organo. L’insufficienza dell’intestino viene definita come la riduzione critica della massa funzionale di intestino solido, sotto i livelli necessari per mantenere la salute e, nei bambini, la crescita. Le cause sono diverse, quali la sindrome dell’intestino corto (quando l’intestino è poco, perché è stato asportato per vari motivi, quali malformazioni congenite, traumi, accidenti vascolari), i disturbi congeniti della motilità (situazione molto rara in cui l’intestino non si muove dallo stomaco in giù), i difetti congeniti della mucosa (in cui l’intestino c’è e si muove ma non assorbe adeguatamente), e altre cause più rare. Il trapianto di intestino non è un unico intervento ma una serie eterogenea di interventi nei quali gli organi addominali, un po’ come un grappolo, vengono composti e scomposti in funzione delle necessità del paziente, e quindi si riconoscono tre grosse categorie del trapianto intestinale: il trapianto di intestino isolato (si parla sempre di trapianto di intestino tenue, perché il colon non ha necessità di essere trapiantato, anche se negli ultimi 10/15 anni si tende a trapiantare, insieme all’intestino tenue, una piccola porzione di colon), il trapianto di fegato e intestino (e di solito, solo per ragioni anatomiche e tecniche, si trapianta anche il pancreas con il duodeno) e, infine, il trapianto multiviscerale (in cui è trapiantato anche lo stomaco) e altre varianti più complesse. Veniamo alla storia, una storia, purtroppo, fatta di pochi passi avanti, se non relativamente recenti. I primi tentativi sperimentali di trapianto intestinale risalgono agli anni ’60, come si trova nelle pubblicazioni di Starzl e Lelhey, con il primo tentativo di trapianto di intestino clinico, cioè nell’uomo nel 1964. Tra il 1964 e il 1970 furono eseguiti meno di 10 tentativi sperimentali senza successo. Poi, nel 1968, fu introdotta la possibilità di nutrire i pazienti in modo integrale per via venosa (nutrizione parenterale totale) e quindi il sommarsi di questa nuova opzione terapeutica e dei risultati decisamente deludenti del trapianto di intestino, ha fatto sì che ogni tentativo di trapianto di intestino fosse abbandonato per 18 anni. Alla fine degli anni ’80, sulla scia dell’entusiasmo generato dai successi dei trapianti di tutti gli altri organi solidi, per molti motivi, uno dei quali l’introduzione della ciclosporina, si rinnovò l’interesse per il trapianto di intestino, per quei pochi pazienti per i quali la nutrizione parenterale non riusciva a risolvere il problema. Quindi, tra il 1988 e il 1989, i primi casi isolati di successo di trapianto di intestino, in Europa e negli Stati Uniti. Solo nel 1992 veniva pubblicata la prima casistica multicentrica e nel 2000 la copertura nazionale assicurativa negli Stati Uniti sdoganò questo trapianto. In Italia, fino ad allora, si ebbero solo un paio di casi isolati. Io facevo parte del gruppo di Milano (foto Prof. Galmarini, Prof. Fassati, Prof. Ferla, Gridelli e Colledan) diretto dal Prof. Galmarini, che approntò un’attività pioneristica nella quale si sono formati chirurghi che hanno aperto centri in tutta la penisola. Nel 2005, il Registro mondiale pubblicava un articolo entusiastico che affermava che era sorta una nuova era, intravedendo il momento in cui il trapianto di intestino sarebbe diventato la terapia di elezione dell’insufficienza intestinale. In realtà, questo era profondamente sbagliato. (come da diretta) Le curve di sopravvivenza mostrano, infatti, un miglioramento della stessa in epoche successive, ma tutto riservato alla prima fase del primo anno, cioè al miglioramento delle tecniche chirurgiche della gestione post-operatoria del paziente, mentre le stesse curve pendono in modo sostanzialmente molto simile e, anche nel periodo più favorevole, di 5/6 anni di distanza dal trapianto, si ha una sopravvivenza che non arriva al 50%. Il grafico della sopravvivenza a 20 anni dei pazienti sottoposti a nutrizione parenterale totale – per contro – evidenzia che il risultato di questa terapia è decisamente migliore rispetto al trapianto di intestino. Quindi, ancora oggi, il trapianto di intestino non è il trattamento dell’insufficienza intestinale e l’intestino è l’unico organo per il quale l’insufficienza dell’organo non costituisce di per sé indicazione al trapianto. Tuttavia esistono dei pazienti per i quali non esiste alternativa al trapianto di intestino, che rimane opzione salvavita per le complicanze letali dell’insufficienza intestinale: insufficienza epatica, trombosi degli accessi vascolari, sepsi ricorrenti da catetere e frequenti episodi di severa disidratazione. In queste situazioni, infatti, i pazienti non possono ricevere nutrizione parenterale in modo efficace. Il concetto, allo stato attuale, dunque, non è di insufficienza intestinale, ma di insufficienza nutrizionale, quale impossibilità di fornire efficacemente nutrizione a lungo termine con mezzi naturali o artificiali. Perché il trapianto di intestino va così male? I motivi sono tanti, ma il principale è il fatto che, insieme all’intestino, si trapianta una grossa massa di tessuto immunitario del donatore e il tessuto immunitario linfatico del donatore interagisce con quello del ricevente in meccanismi assolutamente perversi e che noi riusciamo a conoscere e a capire solo in parte che, da un lato, configurano il rigetto e, dall’altro, configurano quella che si chiama malattia di rigetto del trapianto verso l’ospite e queste due cose combinate generano delle situazioni che spesso sono del tutto ingestibili. Il rigetto del trapianto di intestino è più frequente e più violento che per gli altri organi, i pazienti sviluppano sepsi e il trattamento della sepsi è esattamente l’opposto del trattamento del rigetto. Per questo motivo questi pazienti ricevono trattamenti immunosoppressivi più pesanti di quelli che ricevono altri organi e questi provocano una maggiore incidenza di infezioni virali e di tumori, in particolar modo i tumori del sistema linfatico, tanto del ricevente, quanto del donatore. Non è prevedibile quale sarà l’esito di un paziente trapiantato di intestino: ci sono pazienti stanno benissimo a lungo termine e ci sono pazienti per i quali la storia clinica è un calvario, con continui ingressi e uscite dall’ospedale. Altro problema è che i pazienti, soprattutto quelli che non hanno l’intestino magari da molti anni, non hanno lo spazio per contenere l’intestino nell’addome (perché non hanno intestino, magari da molti anni) e hanno bisogno di organi molto piccoli, laddove, invece, l’intestino è un organo che nel donatore si deteriora rapidamente, e quindi questa combinazione di intestino che non si deve deteriorare ma che deve essere molto piccolo fa sì che i donatori che si possono usare per trapianto siano molto pochi, molto meno dei candidati (che, a loro volta, sono pochi). Per affrontare il problema delle dimensioni, si usano varie strategie, quali i donatori neonati, la riduzione del volume dell’intestino con resezione, e, infine, la ricostruzione della parete addominale per permetterle di contenere un intestino che altrimenti non riuscirebbe a starci. Per cercare di ottimizzare la tecnica dello split, essa può essere utilizzata anche per il trapianto di fegato-intestino, tuttavia solo teoricamente perché negli Stati Uniti sono stati pubblicati tentativi senza successo e l’unico tentativo eseguito con successo a mia conoscenza è quello eseguito da noi intorno al 2007/2008 in una bambina, paziente viva ancora oggi e con una buona funzione del suo fegato e del suo intestino trapiantati. Si può trapiantare da vivente sia l’intestino isolato che il fegato-intestino, naturalmente ciò significa prelevare due organi dello stesso donatore. (come da diretta) La diapositiva che ben esprime tutte le tecniche e le strategie che sono state messe in atto nel mondo per cercare di dare un alloggio all’intestino e riuscire a chiudere l’addome, dando l’idea della gravità del problema: si va dall’uso di espansori cutanei per guadagnare lunghezza di cute, all’utilizzo di plastiche che vengono messe provvisoriamente, fino al trapianto di parete addominale prelevata dallo stesso donatore. Nel frattempo, la gestione dell’insufficienza intestinale ha fatto grandissimi progressi: il punto cruciale è che i pazienti con insufficienza intestinale devono essere seguiti presso quei pochissimi centri che hanno una grande specializzazione e una grande esperienza e che riescono a gestire i cateteri vascolari, prevenendo le trombosi e le infezioni, e a gestire la nutrizione, prevenendo la malattia di fegato e l’insufficienza epatica, e che hanno a disposizione chirurghi che mettono in atto le tecniche di allungamento intestinale, di vario tipo, che nel frattempo sono state sviluppate, più o meno difficili, più o meno sofisticate, più o meno efficaci, ma tutte interessanti, e che consentono una gestione globale dell’insufficienza intestinale come alternativa al trapianto (in diretta grafico in cui vede il sempre maggiore impiego delle tecniche di allungamento rispetto al trapianto). Comunque, ripeto, ci sono pazienti per i quali non esiste alternativa al trapianto di intestino, pazienti che, proprio per la difficoltà di trovare donatori, rimangono in lista d’attesa per anni e muoiono in lista d’attesa: in questo momento, in Italia, non so quanti pazienti ci siano in lista, ma non arrivano a 10, e probabilmente la metà di questi non arriverà al proprio trapianto, se non di più. I trapianti di intestino, dopo l’entusiasmo della prima metà degli anni 2000, sono calati nel tempo e il numero totale dei trapianti di intestino eseguiti in Italia negli ultimi anni è 54 (negli ultimi anni, 1 o 2 all’anno): non si riescono a trapiantare i pochi soggetti in lista perché non si riescono a trovare organi idonei, tenendo anche conto che molti di questi pazienti necessitano anche di trapianto di fegato (e usare un fegato per un trapianto multi viscerale significa non allocarlo per un trapianto di fegato, che ha risultati molto migliori). La nostra esperienza, ormai relativamente lunga – iniziata nel 2006 e riguardante tutte le tecniche – ma molto contenuta nei numeri, è di 13 trapianti in 12 pazienti: abbiamo avuto un solo decesso ospedaliero, cioè durante il ricovero per il trapianto, siamo riusciti a chiudere l’addome in tutti i pazienti e tutti i pazienti trapiantati, usciti dall’ospedale, hanno smesso la loro nutrizione, almeno inizialmente (il che non vuol dire che non hanno più dovuto riprenderla), ovviamente, però, le complicanze si presentano dopo e anche la nostra curva di sopravvivenza alla fine non è molto diversa da quelle dei centri che hanno più esperienza di noi o del registro mondiale. Conclusioni: sicuramente si registra un progressivo miglioramento dei risultati a breve termine del trapianto di intestino ma non di quelli a lungo termine e la disponibilità di donatori adeguati per funzione e dimensioni è critica; è probabilmente il trapianto che soffre di più la carenza di organi adeguati, pur nella nel piccolo numero di pazienti che ne hanno bisogno; il rigetto è ancora oggi estremamente programma problematico; i pazienti abbisognano di un programma terapeutico estremamente impegnativo che può essere messo in atto in centri specializzati in cui si applica una multidisciplinarità estrema che assorbe una quantità di risorse incredibile; contemporaneamente ci sono stati progressi molto significativi nel trattamento dell’insufficienza intestinale, che comprendono anche le tecniche di rimodellamento e di allungamento intestinale, metodiche che hanno ridotto ulteriormente il margine terapeutico del trapianto di intestino e quindi il bisogno di trapianto di intestino, soprattutto negli ultimi 15 anni; nonostante ciò, per un piccolo sottogruppo di pazienti, il trapianto di intestino, nelle sue varie forme, rimane l’unico trattamento salvavita per le complicanze letali dell’insufficienza intestinale. Vi ringrazio per l’attenzione.
Leonida Pozzi, già Presidente Aido Consiglio Regionale della Lombardia e Presidente Aido Sezione Provinciale di Bergamo. Ringraziamento. Ci tenevo a ringraziare il dottor Marchesi e il professor Colledan che hanno collaborato alla realizzazione di questo convegno. Grazie di cuore.
Corrado Valli, Presidente Aido Consiglio Regionale della Lombardia. Conclusioni. Oggi abbiamo ampliato le nostre conoscenze, abbiamo allargato il nostro bagaglio culturale. Posso dire senza alcun dubbio che per noi volontari questa è stata una formazione di eccellenza dalla quale usciamo decisamente arricchiti. È stato fatto un passo importante sulla strada già tracciata e percorsa nel passato della collaborazione con le strutture ospedaliere, strada che intendiamo percorrere anche per il futuro. Il nostro compito è quello di sensibilizzare le persone parlando alle coscienze affinché si aprano e si arrivi a dire sì alla donazione. Desideriamo creare quella sensibilità collettiva di apertura alla vita che sappia andare oltre la fine della propria vita. Lo abbiamo fatto in questo lunghi anni informando, stimolando e raccogliendo le manifestazioni di volontà. Ma lo abbiamo anche fatto spingendo le amministrazioni comunali a mettere in campo l’iniziativa “Scegli Oggi” che è stata poi seguita con particolare successo da “Una Scelta in Comune”. Quante volte, negli anni scorsi, siamo andati dai sindaci e dagli assessori per spingerli ad aprire gli uffici anagrafe alla raccolta delle manifestazioni di volontà. Compito del mondo sanitario è, invece, quello di mettere in campo tutte le conoscenze, le competenze e le tecnologie migliori. Così come sta avvenendo per le nuove frontiere comunicateci oggi: migliorare le attrezzature per la perfusione extracorporea, cuore artificiale biocompatibile, migliorare l’assistenza meccanica al circolo. Tutto questo perché si possa dare una risposta positiva, una speranza di vita alle 9.000 persone che oggi aspettano in lista d’attesa perché si arrivi all’agognato trapianto. Oggi in Italia ci sono circa 50.000 persone che vivono una nuova vita grazie ad un dono disinteressato e alla bravura di medici capaci, dediti alla loro missione. Una grande, grandissima soddisfazione per tutti noi! Nonostante i traguardi raggiunti ritengo che una associazione come la nostra serva ancora, perché dobbiamo continuare a garantire il nostro servizio alla medicina facendo da pungolo alla società e alle strutture sanitarie. Lo abbiamo fatto quando di fronte alla commissione terza della Regione Lombardia abbiamo spinto perché si addivenisse alla formalizzazione, nel seno della direzione generale welfare, del coordinatore regionale ai trapianti. Dovremo lavorare in futuro perché venga attuata la delibera del Consiglio Regionale della Lombardia che ha approvato, con 68 voti favorevoli e 1 astenuto, una mozione che impegna il Presidente e la Giunta ad istituire la “Giornata annuale del dono” nelle scuole secondarie lombarde. Ci sono particolarmente care le scuole, alle quali indirizziamo gran parte del nostro operare, perché è lì che si formano le future generazioni.
Oggi i nostri bravissimi relatori ci hanno illustrato questo meraviglioso evolversi della medicina trapiantologica e ci hanno aperto delle interessanti finestre sugli sviluppi futuri: ripopolare lo scheletro del rene con le cellule del ricevente, migliorare l’outcome dei reni marginali, porre maggiore attenzione ai donatori marginali over 70. Questa loro aspirazione a fare ancora di più e meglio deve essere supportata a livello di sistema sanitario, oggi in Lombardia purtroppo non sempre si colgono le opportunità di donazione degli organi, nelle 27 ASST e nelle strutture ospedaliere abbiamo una organizzazione eterogenea e si perdono delle opportunità. La sfida e l’impegno che la nostra associazione deve assumersi, oggi e per il futuro, è quella della divulgazione, dell’informare in modo corretto e responsabile. Crescerà sempre di più l’impegno nell’ambito della comunicazione a tutti i livelli, da quello diretto, dell’incontro personale, vis a vis, importantissimo, perché quando si parla di certi argomenti è fondamentale il contatto personale, a quello mediato dai canali di comunicazione di massa: dai social, alla carta stampata, dalle radio alle tv. Il recente riconoscimento di Aido quale prestatore di pubblico servizio da parte delle istituzioni ci aprirà inaspettate prospettive. Sono convinto che la nostra associazione avrà un ruolo importante all’interno del mondo sanitario quale attore dell’offerta informativa, sempre più necessaria nel rapporto maturo e consapevole tra sanità e cittadino. Saremo di fondamentale importanza nel percorso generativo di una completa e matura coscienza sanitaria personale. Nel chiudere la giornata vi ringrazio ancora tutti per la vostra presenza, nella forte speranza che questi momenti si possano ripetere. Arrivederci.